TORINO 29 – "Waking Things", di Melika Bass/"Mirrors for Pinces", di Lior Shamriz (Onde)


Waking Things
e Mirrors for Princes non potrebbero essere più diversi visualmente. Eppure un filo rosso scorre sotterraneo tra queste due opere, un corto di una regista americana e un mediometraggio di un regista israeliano: il rito. E, nello specifico, il rito di passaggio, quella soglia che bisogna attraversare per raggiungere una nuova fase del proprio ciclo vitale

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Waking ThingsWaking Things e Mirrors for Princes non potrebbero essere più diversi visualmente. Da una parte, una messa in scena pittorica, statica, che ricrea scene da quadri di genere fiamminghi, dipinti con la luce di un Caravaggio; dall'altra, un'opera multimediale, che sconfina oltre il cinema, facendosi videoarte, un ipertesto aperto a tante influenze e vari media, che si fondono in una rappresentazione rivelatrice. Eppure un filo rosso scorre sotterraneo tra queste due opere, un corto di una regista americana e un mediometraggio di un regista israeliano: il rito. E, nello specifico, il rito di passaggio, quella soglia che bisogna attraversare per raggiungere una nuova fase del proprio ciclo vitale.

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In Waking Things, la ritualità non viene nascosta, sta in superficie, nella ripetitività dei gesti, nella cerimonialità delle azioni, andando a creare un tempo ciclico, sempre uguale, bloccato nella sua eternità. I tre personaggi, tipi archetipici come i loro stessi epiteti annunciano, sono i custodi di un segreto, che viene tramandato ai tre nuovi “guardiani della soglia”, sempre due uomini e una donna. Il loro salire e scendere la scale silenziosamente, incrociandosi e fermandosi; preparare il pane o semplicemente condividere un pasto rimanda a qualcosa Altro, che prende connotazioni quasi mistiche nella lunga attesa e nei tempi dilatati al massimo, infarciti di dettagli di una Natura che fa da memento mori, ricordandoci della fugacità del presente e della vita stessa.

Mirrors for PrincesMirrors for Princes è, invece, un'opera labirintica, una stratigrafia che si addensa nell'immagine. Shamriz sovrappone liquidamente testo, immagini originali, filmati dal web, finestre multitasking su uno schermo del computer (sin da una delle primissime inquadrature in cui Pirate Bay si accosta alla Apple in maniera del tutto contrastiva), riprese che si fingono di repertorio, film nel film. Una complessità visiva che si accompagna a quella narrativa, più livelli giustapposti, apparentemente scollegati tra di loro, ma in realtà accomunati da un'idea centrale forte. Ci si perde in una simile opera, tanto quanto il giovane Figlio disorientato nel corridoio pieno di porte. Ognuna di esse rappresenta una diversa possibilità, una realtà diversa che potrebbe dischiudersi per lui se solo varcasse la soglia, in un processo simile a quello di cui viene investito lo spettatore davanti a questo scontro tra Padre e Figlio. La Legge che si scontra con gli ideali, un uomo inquadrato (letteralmente) in precisi schemi mentali che contrasta la vena artistica del figlio. Il difficile rapporto tra i due, anche per l'assenza della Madre, più che in campo freudiano si esplica in maniera quasi biblica, rituale appunto. Alla separazione, lo strappo a causa delle incomprensioni che si tenta di rimarginare con una mediazione, un andare avanti e indietro dal volto di uno a quello dell'altro, segue una fase di transizione: un viaggio in treno che si configura come un viaggio nella memoria, la ricerca delle proprie possibilità, anche attraverso un avanguardistico film nel film in cui il figlio tenta di esorcizzare la figura del padre, sostituendosi a lui; la decisione d'intraprendere una strada fino al rito vero e proprio, un taglio fisico sul corpo di un altro, giocato sulle antiche formule sumere di Šuruppag, che porta alla reintegrazione, quando ormai il Figlio è davvero adulto. Tuttavia, il rito è anch'esso, come tutto il resto, una finzione, una messa in scena appositamente creata per la macchina da presa, colta attraverso gli specchi che allargano l'immagine e rivelano l'artificio, rendendo visibili gli “attrezzi del mestiere”, usati dal figlio stesso come mezzo per autoaffermarsi. Una finzione apertamente svelata e mai fuggita, ma che si rivela potente nel riflettere sulla natura del cinema stesso in una parabola di crescita e cambiamento.

 

 

 

 

 

    

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