TORINO 29 – “Into the Abyss”, di Werner Herzog (Concorso documentari internazionali)

Into the Abyss, Werner Herzog
Si procede sempre per forti contrasti, accostando l’inatteso e il prevedibile in un modo quasi inedito per il regista tedesco. Merito di una materia incandescente che Herzog riesce ad affrontare con occhi puri e saggi al tempo stesso. Si tratta solo di trovare la giusta distanza tra sé e le storie da raccontare, anzi, gli uomini e le donne cui viene riservato ogni volta un tono e un grado di partecipazione diversi

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Into the Abyss“Il fatto che io parli con te non significa necessariamente che mi devi piacere, ma credo che gli esseri umani semplicemente non debbano essere condannati a morte”. Werner Herzog non concede spazio al dubbio circa la materia che ha deciso di raccontare nell’ultimo Into the Abyss. Una storia di morte e di vita, recita il sottotitolo, ma guai a prenderlo troppo sul serio. Perché la vita e la morte su cui si sofferma il suo sguardo sono ormai concetti quasi astratti perché sorpresi a tal punto nella loro flagrante concretezza da trovarci impreparati. Fatta la sua dichiarazione di pensiero, non resta che inabissarci nelle profondità dell’animo umano (cosa che a Herzog riesce meglio di ogni altra cosa) per andare a toccare con mano gli innumerevoli abissi in cui i suoi personaggi sono intrappolati. A partire dal prete “costretto” ad assistere i condannati a morte nel momento dell’esecuzione e a testimoniare la vita in un luogo e in un momento in cui non sembra esserci più nulla di vivo. E non occorre entrare nel dettaglio della procedura o dei sentimenti di quest’uomo, perché le croci di pietra che stanno alle sue spalle da sole bastano a dire tutto quello che non gli viene chiesto. E così ci si può perdere ad immaginare il suo incontro con uno scoiattolo.

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Si procede sempre per forti contrasti, accostando l’inatteso e il prevedibile in un modo quasi inedito per il regista tedesco. Merito di una materia incandescente che Herzog riesce ad affrontare con occhi puri e saggi al tempo stesso. Si tratta solo di trovare la giusta distanza tra sé e le storie da raccontare, anzi, gli uomini e le donne cui viene riservato ogni volta un tono e un grado di partecipazione diversi. Si sente la vicinanza con l’uomo che ha i calli alle mani perché fa il meccanico e il distacco, anche un po’ sarcastico, verso la donna che ora è moglie di Jason Burkett, e ugualmente si sofferma a parlare delle mani di suo marito. Tra l’uno e l’altra si sviluppa una falsa indagine che coinvolge Michael Perry, nel braccio della morte per un triplice omicidio a Conroe, Texas, e il suo complice Burkett, appunto, condannato, invece all’ergastolo. Herzog pone a tutti le sue domande per raccontare i fatti a partire soprattutto dagli effetti che quei gesti efferati hanno prodotto. Si entra nelle scene del crimine attraverso i video girati dalla polizia nei primi giorni di indagine e si ascoltano le parole di ognuno, mentre negli occhi è rimasta impressa l’immagine dell’inizio, con la camera della morte, il lettino, le cinghie, e si precipita nell’horror da cui il film sembra essere accerchiato, come se una minaccia stesse in agguato e riuscissimo a sentirne il respiro, come le immagini inquietanti dell’iguana nel suo Cattivo tenente. Questa volta non ci si deve spingere oltre i limiti tanto cercati nel cinema di Herzog, e non ci sono eroi o antieroi da seguire e assecondare nella loro follia. Tutto è già accaduto. La scommessa, invece, è riuscire ad allontanarsi dall’abisso senza farsi divorare.

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