TORINO 29 – “50/50”, di Jonathan Levine (Concorso)


Bryce Dallas Howard, questa rossa, ammaliante lady in the water continua a corteggiare la mdp e poi a sparire dai film, qui come in Hereafter, non ha paura di rischiare dunque con ruoli certamente antipatici, e soprattutto non riesce a quanto pare a stare lontana da un Cinema che costeggia e corteggia instancabilmente la Morte, sbircia oltre la soglia, a volte la oltrepassa, altre si ritrae, ma non di troppo. Negli occhi di Bryce Dallas Howard si specchiano le danse macabre di Eastwood, Levine e Shyamalan, ma anche quelle di L’amore che resta, l'esordio da produttrice

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Ci piacerebbe scrivere (ancora) di Seth Rogen, dei suoi grugniti da amico vero e della maniera commovente che ha di picchettare i film che interpreta, assicurarli saldi intorno alla propria imponente mole che sembra messa lì appunto per mantenere il Cinema con i piedi per terra, controbilanciarlo, settarlo sulla bassa quota delle quotidiane miserie di capelli e fango (come nel primo dialogo del film in cui continua imperterrito a porre la “questione sessuale” come primaria…). Dire del suo fenomenale acume produttivo (insieme al compare di sempre Evan Goldberg), che qui non si lascia scappare il fragile script autobiografico dello sceneggiatore Will Reiser, e poi lo affida a Jonathan Levine che no, non è Judd Apatow, e dunque su di lui non è che invece ci interessi più di tanto scrivere. Ma è anche vero che stavolta Levine il film non se lo lascia sfuggire di mano, indovina soprattutto un’ambientazione piccolocittadina decisamente umana (è Vancouver ma la spaccia per Seattle, forse perché a conti fatti il film è decisamente grunge, ed ecco allora perché sui titoli di coda parte Yellow Ledbetter dei Pearl Jam), e forse è giusto nella selezione musicale un po’ troppo catchy che fa il favore più grande alle fan di Joseph Gordon-Levitt, reimmergendolo nella cornice cool alla 500 days of Summer (e infatti all’attore tocca anche replicare, solo per una breve sequenza fortunatamente, l’astio irriducibile del dumped nei confronti della ex, che era la cifra del film di Marc Webb). Per il resto, Gordon-Levitt intelligentemente si affranca da quel ruolo, seppur calpestando un similare pavimento a scacchi indie, e mette in piedi una faccia mai patetica ma sempre credibile, bravo un po’ come lo score originale di Michael Giacchino, che non si gonfia mai di note melodrammatiche ma resta sempre nell’aria, anche lui senza costringersi a impennare.
Eppure sentiamo al contrario il bisogno di scrivere invece di Bryce Dallas Howard, che magari è meno interessante e notevole di Anna Kendrick, e sicuramente non porta a casa le sequenze anche solo semplicemente fronteggiandole come fa Anjelica Huston nella sua piccola parte. Però questa rossa, ammaliante lady in the water continua a corteggiare la mdp e poi a sparire dai film, qui come in Hereafter, non ha paura di rischiare dunque con ruoli certamente antipatici, e soprattutto non riesce a quanto pare a stare lontana da un Cinema che costeggia e corteggia instancabilmente la Morte, sbircia oltre la soglia, a volte la oltrepassa, altre si ritrae, ma non di troppo. Negli occhi di Bryce Dallas Howard si specchiano le danse macabre di Eastwood e Shyamalan, e come una Parca dal volto insondabile, l’attrice fa la sua comparsa anche in questo 50/50. Ma soprattutto, a conferma di quanto intuito, Bryce esordisce da produttrice insieme al padre firmando L’amore che resta di Gus Van Sant, forse tra tutti il film più vicino all’opera di Levine, di cui rappresenta magari proprio l’altra metà, quel 50 % di storia d’amore che può continuare da questa parte della linea, in questa “dimensione”, ugualmente sospesa nel finale nella stessa domanda che si facevano i ragazzi di Amici, amanti e…. Un cinema di puntini di sospensione (e punti fermi come Rogen), che fa i conti appunto con la Morte come interruzione di pagina magari non definitiva, tanatologia linguistica.

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