OCCUPY WALL STREET – Life Without Principle: il "Cinema della Crisi"


I traumi americani (e per traslazione “occidentali”) novecenteschi hanno sempre assunto il cinema come speaker principe di un processo di denuncia / sublimazione / superamento nello Spettacolo. E la nostra crisi finanziaria degli anni duemila porta in dote non solo una valanga di debiti e neologismi, ma anche un nuovo modo di guardare al reale 

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«Ci sentiamo liberi perché ci manca addirittura il linguaggio per articolare la nostra illibertà…» — Slavoj Žižek 

  

«L’avidità è giusta, l’avidità funziona, l’avidità chiarifica, penetra e cattura l’essenza dello spirito evolutivo. L’avidità in tutte le sue forme: di vita, di amore, di sapere, di denaro, ha improntato lo slancio in avanti di tutta l’umanità. L’avidità salverà la disfunzionante società che ha nome America…» — Gordon Gekko in Wall Street (1987)

  

 Gordon Gekko ce lo aveva già detto nel 1987. La sua fulminea ascesa e rovinosa caduta, nel più classico arco di trasformazione del personaggio all american, era stato un prezioso bignami di tutto quello che ciclicamente avviene sotto l’ombrello sgangherato del capitalismo occidentale. Periodi di prorompente ascesa economica conditi da rampantismo e lotte di potere, alternati a periodi di crolli, recessione, rabbia sociale. E il cinema è sempre stato in prima fila: Kinoglaz sul mondo, sguardo (s)centrato sul reale, animale mutante che intercetta i sintomi della crisi e li trasforma in Spettacolo. I traumi americani (e per traslazione “occidentali”) novecenteschi hanno sempre assunto il cinema come speaker principe di un processo di denuncia/sublimazione/superamento: dalla grande depressione (cantata da Frank Capra negli anni ‘30) alla seconda guerra mondiale (dai Wy We Fight a William Wyler nei ‘40), dal Vietnam (di Cimino e Coppola nei ‘70) all’11 settembre e le guerre preventive  (Greengras e la Bigelow appena ieri), Hollywood è stata un filtro politico/spettacolare essenziale per decodificare i fenomeni che mutano costantemente sotto i nostri occhi. Ed eccoci al nostro presente travolto dai neologismi: spread, bond, default, subprime, parole che si intrecciano al nostro vivere quotidiano. Parole che hanno a che fare con il nostro guardarci allo specchio la mattina e che dettano le agende ai nostri “futuri prossimi”. Una farfalla tedesca batte le ali a Francoforte e un terremoto finanziario si scatena a Milano…

 

Il crollo di borsa del 2008Michael Moore nel 2009 parlava di capitalismo che canta la sua Love Story con i cittadini occidentali sino a quando resta subordinato alla democrazia. Ma se il concetto di democrazia diventa un accessorio subordinato al capitalismo il pericolo insito è quello dell'avidità appunto. Quell’avidità che "fa muovere il progresso" ma che, spinta oltre i limiti consentiti dal bene comune, sconquassa le prospettive, crea “bolle” di povertà, oscura il controcampo di ogni sana democrazia: la gente comune. Il crollo finanziario del 2008 porta in dote non solo una valanga di debiti e neologismi, ma anche un nuovo modo di guardare al reale. Il simulacro di realtà di cui non molto tempo fa ci parlava Jean Baudrillard (la Borsa Valori è di fatto il regno incontrastato del fenomeno simulato, straordinario paradigma della nostra epoca) sembra divenuto l’unico orizzonte possibile: "benvenuto nel deserto del reale" diceva il vecchio Morpheus in Matrix. E come reagisce il cinema? Si adatta, fa domande, reinventa e si autocita proclamando ancora (per nostra fortuna…) la sua sana voglia di Vita. L'indiñado Slavoj Žižek dei marciapiedi newyorkesi sta probabilmente dicendo a chi vuole occupare Wall Street che è l’Immaginario a dover reagire ad una crisi del Simbolico riconfigurando il Fantasma del Reale. E allora occupiamoci di Film. Circoscriviamo questo “cinema della (nuova) crisi” in tre cerchi – o bolle, tanto per rimanere in termini finanziari – intersecanti: 1) i film americani che prendono di petto il problema denunciandolo; 2) i film che introiettano la crisi come sfondo e sottotrama occulta della loro diegesi; 3) infine i film che, da ogni parte del mondo nel 2011, hanno affrontato la crisi (economica, morale, politica) che si sta allargando come una nuova terribile invasione degli ultracorpi

 

Too Big to FailNel primo gruppo possiamo annoverare innanzitutto il documentario premio Oscar Inside Job. Film che è l’altra faccia del documentario “alla Michael Moore": tanto quest’ultimo è arrabbiato, fazioso, eclettico e straordinariamente ingombrante, tanto Charles Ferguson è invisibile, puntuale, deduttivo, ma altrettanto sottilmente politico. Inside Job materializza l’incubo della crisi come un agghiacciante fantasma ampiamente prevedibile (e previsto!). Fantasma che si materializza nei discorsi (in)eccepibili di chi ha vissuto il crollo borsistico del 2008 da protagonista: le facce e gli occhi di una babele di burocrati finanziari che giocando costantemente “a chi ce l’ha più lungo” hanno inceppato il meccanismo, hanno cavalcato troppo la libertà trasformandola nella sua nemesi, hanno indossato troppo spesso la maschera di Gordon Gekko. E allora serve la narrazione: è il film di Curtis Hanson Too Big to Fail a ritracciare quelle classiche coordinate del film di inchiesta anni ’70 strategicamente resuscitate. Too Big to Fail è un abisso pakuliano di tensione sottopelle, in cui la purezza dinamitarda del campo/controcampo classico annienta ogni vezzo registico e restituisce l’incredulità dei veri accadimenti dell’autunno 2008. Fatti che “naturalmente” si avvertono tre anni dopo nelle tasche arrabbiate e nei cuori sofferenti di noi semplici spettatori: è materia viva l’inquadratura di Hanson, la sola crudissima messa in scena – che supera in scioltezza le riflessioni alquanto datate su Wall Street fatte negli ultimi due anni da Oliver Stone e Neil Burger – basta a configurare il nostro tempo. E poi ancora il cinema indie con il gioiellino misconosciuto Margin Call dell’esordiente J. C. Chandor (presento in concorso alla scorsa Berlinale). Film claustrofobico, rinchiuso nelle mura di un ufficio e nel tempo ristretto di una notte: le ore in cui i vertici di una banca d’investimento (Jeremy Irons e Kevin Spacey giganteggiano) decidono il futuro del “mercato” consapevoli di stare immettendo titoli tossici. Ma il film va ancora oltre e concede tempo alla confusione di tante piccole esistenze, analizzandole e cogliendo le loro (in)giustificabili reazioni. L’abisso pakuliano è qui filtrato da un impeto entomologico quasi herzoghiano nella coalescenza cronica tra animalità ferina e sovrastrutture culturali in sfacelo.

 

MoneyballAl secondo gruppo di film potremmo ascrivere una miriade di produzioni che negli ultimi due anni hanno raccontato la crisi ponendola come sfondo su cui ricostruire Storie. Perché proprio adesso andare a scavare negli scheletri della politica americana con piglio settantesco come in The Conspirator  Le idi di Marzo? Perché resuscitare ora la travagliata storia di una squadra di baseball in crisi finanziaria nel 2001 come nel bellissimo Moneyball? Se Redford e Clooney squarciano il velo del simulacro politica cercando i prodromi di ogni crisi, il film di Bennet Miller ricompone il Mito americano in una grande lezione di etica altruista che bypassa il denaro con la metafora dello sport. La cronica partenogenesi dell’American Dream trova sempre il modo di riaffermarsi. E poi, ancora, film come A Little Closer (le incertezze sessuali di due adolescenti figli di una madre single con difficoltà lavorative) o Mosse vincenti (l’avvocato Paul Giamatti soffre un vertiginoso calo di clienti ed è costretto a fare un piccolo atto di frode che farà “muovere” la narrazione) dimostrano che il cinema viaggia molto più velocemente dei telegiornali e forse anche di You Tube. Perché allo sguardo sul fenomeno associa una riflessione umana che ridona un potente valore testimoniale all’immagine ormai inflazionata: il Cinema vede, digerisce, configura e produce soluzioni sotto l’ombrello dell’enterteintment. Dissotterra metafore intramontabili del genere classico come il contagio virale (Contagion di Soderbergh), la paura dell’oscurità che inghiotte (Vanishing on a 7th Street di Brad Anderson) o la comunicazione con altre dimensioni come nel capolavoro eastwoodiano Hereafter. George Lonegan (Matt Damon) è un sensitivo che rifiuta la sua condizione di tramite e si rifugia in un magazzino come operaio. Ma la crisi economica lo stana e lo fa licenziare: non gli rimane altro che accettare se stesso e mettersi al servizio del prossimo. La sua incertezza nel "vedere", le sue titubanze di fronte ad un bambino in crisi che chiede chiarezza sono una sublime risposta a ogni tracollo: si va avanti riscoprendo solo l’umanità sepolta.

 

Life Whitout PrincipleInfine il terzo gruppo di film, che da ogni parte del mondo quest’anno hanno dato voce ad una crisi che via via si fa sempre più privata oltre che sistemica. L’Islanda e la Grecia sono travolte dalla recessione? Il cinema risponde con Either Way di Sigurosson e Alpis di Lanthimos, film opposti che disegnano il ricordo della purezza islandese e la pulsione di morte nella Grecia attuale. Dall’apolide Abel Ferrara al recluso Lars Von Trier si torna a parlare di imminente fine del mondo; dall’universo poetico del nuovo Kaurismaki all’abisso pulsionale scavato da Steve McQueen in Shame si ridiscute il corpo/strumento occidentale; persino la profonda crisi, privata e spirituale, che sente sulla propria pelle il Papa Melville di Moretti universalizza un malessere che può solo ricomporsi (esattamente come in Eastwood) nella riscoperta dell'umanissimo atto di mangiare il cornetto in una notte come tante. Umanità che prorompe dallo schema nello splendido Life Without Principle dell’hongkonghese Johnnie To, forse il film cardine per capire cosa sta diventando questo nuovo cinema della crisi. To reinventa il (suo) genere noir sostituendo pistole e scontri epici con i pixel e le tastiere di un pc puntato sui listini di borsa. La strada del noir si virtualizza e il gangster movie sostituisce le pallottole con i numeri, le minacce con i clic, il sangue col denaro. Istinti e avidità, omicidi e comicità, straniamento e speculazione, tutto configurato con una disarmante perizia geometrica che fa del Cinema un fertile (iper)testo in cui spettacolo e riflessione si fondono nella stessa inquadratura. Perché se il destino imminente di un assurdo gangster hongkonghese dipende solo dal finanziamento europeo che Bruxelles concederà alla Grecia in bancarotta, allora ci troviamo veramente di fronte alla teorizzazione più cristallina dell’Immaginario cinematografico che per l’ennesima volta diviene più reale del nostro Reale.

Michael Moore sbraita contro i cancelli di una banca; Matt Damon rassicura un bambino impaurito; Paul Giamatti  si ritrova a fare il barista ; Michel Piccoli mangia un cornetto nella notte romana; Kevin Spacey sotterra in lacrime il suo cane morto; Michael Fassbender corre disperato nella notte di New York; Ching Wan Lau si regala un sigaro a Hong Kong. Immagini che abbattono ogni confine spaziale e temporale in un vibrante  grido di umana elementarità contro la dittatura di una barra rotante intasata di numeri e pixel che imponendoci le conseguenze di una crisi simulata detta insopportabilmente le regole della nostra borsa e della nostra vita

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