SAN SEBASTIAN 57 – "Hadewijch", di Bruno Dumont (Concorso)

Bruno dumont san sebastian 57
Al suo quinto lungometraggio Bruno Dumont realizza un film meno pesante, per situazioni e (false) provocazioni d’autore, dei suoi precedenti, ma non per questo estraneo a derive di pornografia ideologica. Peccato, perché Hadewijch sembrava muoversi in altre direzioni, seguendo le scelte di una ragazza parigina determinata e fragile. Ma a differenza dei cineasti che comunque affiorano dalle immagini e che il misticismo e l’estasi li hanno raccontati senza compromessi, il regista non sa resistere alle tentazioni schematiche e alla facile retorica
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dumont san sebastian 57Al suo quinto lungometraggio Bruno Dumont realizza un film meno pesante, per situazioni e (false) provocazioni d’autore, dei suoi precedenti (da La vie de Jesus a L’humanité a Twentynine Palms), ma non per questo estraneo a derive di pornografia ideologica. Hadewijch (nome del villaggio dove è nata la giovane protagonista Céline e nome che lei prende quando decide di entrare in convento) è un film sull’estasi, sul misticismo, sulla passione/ossessione di una ragazza per Gesù, al quale vorrebbe consegnarsi corpo e anima. Amando desiderando respirando quel contatto con l’Invisibile e con i suoi segni materiali (il piccolo crocefisso che tiene sempre in mano; il crocefisso deposto in una grotta dietro un’inferriata dalle parti del convento, nel bosco verso cui Céline e il film spesso si incamminano e sostano). Ma non è ancora pronta, Céline. Glielo dice la madre superiora in una delle scene della prima parte del film, quella ambientata nel convento, e, insieme a quella finale e a essa speculare, la più intensa.
Inquadrature frontali, totali, architetture geometriche e fredde quanto il clima invernale non scelto a caso, scolpiscono questo dramma raggelato che Dumont disegna con rigore visivo e narrativo, salvo poi condurlo, quel dramma-percorso d’iniziazione di un personaggio, verso luoghi e personaggi che raddoppiano inutilmente la recerca interiore di Céline. Ovvero l’amicizia, prima, con un coetaneo arabo (che la porta a vedere un concerto in un parco, quasi tutto ripreso in piano sequenza frontale e fisso, in una delle scene migliori) e il coinvolgimento, poi, dopo avere conosciuto il fratello del ragazzo, nella causa islamica più radicale, il sacrificio attraverso il gesto terroristico. Scene che distruggono la tensione verso la ‘missione’ di Céline, e che fanno riaffiorare, anche in maniera narrativa confusa, appunto l’ideologia più rozza, il pensiero più omologato, del regista francese.
Peccato, perché Hadewijch (co-prodotto da Rachid Bouchareb) sembrava muoversi in altre direzioni, seguendo le scelte di una ragazza parigina determinata e fragile, interpretata con fermezza dall’esordiente Julie Sokolowski, sul cui volto Dumont si sofferma a lungo nei suoi momenti di fuga interiore di desiderio e astrazione. Fino alla fuga dal convento, perché ricercata dalla polizia si immagina a causa dell’attentato islamico compiuto in pieno centro a Parigi, verso il bosco, il prato, lo stagno. Novella Mouchette (ancora la fine di quel film di Bresson torna di recente al cinema, come pure in Garage…) che non si lascia scivolare nell’acqua, ma vi si immerge, sparendo dentro essa. Salvata però da un uomo, ex detenuto e ora muratore nel convento, sorta di nuovo Cristo, di ‘regista’, che la prende fra le braccia e la salva. Perché Dumont, a differenza di Céline e dei cineasti che comunque affiorano dalle immagini e che il misticismo e l’estasi li hanno raccontati senza compromessi, non sa resistere alle tentazioni schematiche e alla facile retorica.

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    Un commento

    • davidetolomei@libero.it

      non sono d'accordo con la stroncatura. Hadewijch è un gran film. qui si confonde la trama con lo schematismo: la storia (ambientata tutta d'estate, ma quale inverno?) è un trascorrere di esperienze umane, reali, poetiche e filosofiche. tutti gli ingredienti, dal volto della brava attrice ai dialoghi, sono al posto giusto. Dumont, un vero autore.