SAN SEBASTIAN 59 – “Rampart”, di Oren Moverman

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Moverman si appropria della scrittura contratta e ossessiva di Ellroy, co-sceneggiatore e autore del soggetto, e la trasforma in immagine. Eccessivo e frenetico, immerso in un rumore che stravolge ogni cosa, proprio come la presenza di Woody Harrelson, Rampart è un film senza pace, perché nella discesa all’inferno non si può fare altro che spronfondare ancora e ancora, in una spirale senza fine

 

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rampartDopo aver riempito pagine e pagine di giornali ed affollato aule di tribunali civili e commissioni di investigazione interne al corpo di polizia, lo scandalo Rampart, nome della famigerata divisione creata in seno al Los Angeles Police Department e protagonista, negli anni ’90, di una lista lunghissima di episodi di corruzione e violenza arbritraria, non poteva lasciare indifferente la grande tradizione noir del cinema americano. I titoli sono tanti: dal magnifico Training Day di Antoine Fuqua al sublime “sguardo infermo” del Matt Dillon di Crash – Contatto fisico, dall’agente corrotto di Faster interpretato da Billy Bob Thornton alla spinta innovativa data al genere poliziesco dalla serie televisiva The Shield.
 
E allo scandalo Rampart torna anche Oren Moverman con il suo secondo lungometraggio, scritto insieme ad uno dei più grandi cantori di quelle figure contorte e maledette che si fanno schegge impazzite e insofferenti di una società profondamente malata, James Ellroy, co-sceneggiatore ed autore del soggetto del film. Moverman chiama di nuovo al suo fianco il cast della sua folgorante pellicola d’esordio (al quale si aggiungono Robin Wright, Ice Cube e Sigourney Weather) e affida al ghigno feroce di Woody Harrelson il folle delirio di onnipotenza di Dave Brown, l’ultimo dei agenti ribelli della Polizia di Los Angeles, veterano del Vietnam brutale, razzista e misogino, come viene definito dalla figlia più grande. E soprattutto vittima sacrificale sola, confusa e disperata, che fa tornare alla mente il poliziotto perduto di Ethan Hawke nel troppo presto dimenticato e magistrale Brooklyn’s Finest. La Los Angeles immaginata dall’agente Brown non esiste più e quell’invincibilità del giustiziere senza pietà per se stesso è solo un inganno dietro il quale il protagonista di Rampart si ostina a nascondere, mentre s’illude di riuscire ancora a controllare il suo mondo e di poter tenere insieme i pezzi di una famiglia, due ex-mogli e due figlie che vivono sotto lo stesso tetto con lui, che sta crollando su se stessa, come un castello di carte.

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Moverman si appropria della scrittura contratta e ossessiva di Ellroy e la trasforma in immagine. Rampart è eccessivo e frenetico, immerso in un rumore sempre assordante che stravolge ogni cosa, proprio come la presenza di Woody Harrelson. Con il suo proliferare di sottotrame che squarciano lo sguardo sfilacciato dell’agente Brown e lo confondono ancora di più, Rampart è un film senza pace, perché nella discesa all’inferno non si può fare altro che spronfondare ancora e ancora, in una spirale senza fine. Perdere tutto e tutti, le figlie, l’amante interpretata da Robin Wright, l’informatore e confidente Ben Foster, vagabondo paralizzato dal Vietnam e doppio spettrale della follia di Dave Brown. Non è la tensione dell’impianto spettacolare (le poche scene d’azione sono riprese con la stessa distanza attraverso la quale l’agente Brown guarda i suoi lampi di violenza) ad interessare Oren Moverman, ma il movimento inesorabile e claustrofobico dei demoni interiori che torturano l’anima del suo protagonista. Dave Brown è modellato con la stessa pasta delle anime dannate del cinema noir, è un uomo già morto senza ancora saperlo. E’ un uomo battutto dalla vita che non riesce ad arrendersi alla propria fine. E sempre più lacerato, patetico e mostruoso si allontana, mentre mastica l’ennesima sigaretta, in un paesaggio che non gli appartiene più.

 

 

 

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