MILANO 22 – “Porfirio”, di Alejandro Landes (Concorso Lungometraggi)

Porfirio
Alejandro Landes, fa il suo esordio nel lungometraggio con Porfirio, lucida epopea di un disabile. Una storia attinta dalla cronaca per un cinema stabilizzato attorno ad un'idea centrale che non viene mai persa di vista, attraverso una forma narrativa ripulita da ogni inutile orpello e ridondanza, un cinema di veri e propri tableaux vivant che condensano la purezza che la mano dell'autore possiede nell'insistere sulla quotidiana verità; con sincera partecipazione. Grattando via ogni finzione resta la pura immagine rappresentativa, il puro personaggio nella sua nudità fisica e spirituale

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PorfirioPorfirio Ramirez sta su una sedia a rotelle. Un colpo di pistola sparato dalla Polizia lo ha reso invalido. Lui vive con il fglio Lissin e Jasbleidy la donna che ama e con la quale consuma i suoi amplessi. Porfirio è la vita ai tempi dell’handicap, è il racconto drammatico e ironico di un uomo disilluso, di un uomo che vive nella certezza del non ritorno ad una normalità pur desiderata. Landes, che fa il suo esordio nel lungometraggio dopo avere girato un documentario, ha realizzato un film in perfetto equilibrio tra forma e contenuto. Il suo cinema, almeno in Porfirio, è statico, anzi, diremmo meglio, stabilizzato attorno ad un’idea centrale che non viene mai persa di vista, anzi via via focalizzata nel proseguire del film. La vicenda umana di questo personaggio, la cui storia è stata attinta dalla cronaca e che è interpretato dallo stesso protagonista della vicenda, è raccontata per tratti essenziali nella loro forma primitiva, ripulita da ogni inutile orpello e ridondanza, tanto da assomigliare a dei quadri narrativi, veri e propri tableaux vivant che condensano la purezza che la mano dell’autore possiede nell’insistere sulla quotidiana verità con sincera partecipazione, l’autentica forza del personaggio e la sua non comune schiettezza.

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Mettere in scena questo concentrato di verità che si trasforma in efficace forma narrativa Porfirioe riuscire a farlo dal primo all’ultimo minuto del film, su un registro di finzione, all’interno di un dispositivo che affronta il racconto in forma quasi documentaristica, non crediamo possa costituire un’operazione semplice. Ma la caparbietà di Landes rende alla fine i suoi frutti se i numerosi premi raccolti dal film ai quattro angoli del mondo significano qualcosa. Porfirio umanizza il dolore, raccontando la quotidiana epopea di un disabile, i suoi sforzi per rendere sopportabile la sua condizione, il film diventa così non tanto una riflessione sulla disabilità, quanto piuttosto e propriamente sulla umana condizione osservata da una prospettiva inusuale, diventa anche un film sulla lotta contro l’ingiustizia perché Porfirio pretende il risarcimento dal suo Governo, ma la sua causa va a rilento ed è il gesto spettacolare che Porfirio ricerca per mettere in risalto l’ingiustizia di cui è vittima e non riuscirà a realizzare.

 

Ma il valore “politico” del film, a differenza di molta produzione latino-americana, non è, in Porfirio, elemento caratterizzante e totalizzante, ma invece strettamente connaturato alla storia e al personaggio, in quella stessa prospettiva di una quotidianità svelata in ogni suo aspetto, anche quello sociale. Lungi quindi dal diventare cinema – verità, Porfirio costruisce la sua naturale empatia all’interno di sofisticati meccanismi puramente cinematografici (un montaggio lineare che denuncia la frammentazione narrativa, ma che restituisce un quadro d’insieme mai frammentario, una stilizzazione dei personaggi secondari che fa pensare ad una particola cura di scrittura).

Il film, infine, svela le sue carte, con un finale rappresentativo e “teatrale”, in cui mette a nudo la propria verità grattando via ogni finzione, resta la pura immagine rappresentativa, il puro personaggio che cogliamo nella sua nudità fisica e spirituale.

 

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