ROTTERDAM 42 – “Stoker”, di Park Chan-Wook (Spectrum)

nicole kidman in Stoker di Park Chan-wook

In anteprima su Sentieri Selvaggi la recensione del primo film americano di Park Chan-Wook, presentato in anteprima europea al festival di Rotterdam. Il cineasta coreano prende (al solito) a piene mani dal repertorio hitchcockiano, e compone una ricca calligrafia che solo apparentemente galleggia sul vuoto.

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nicole kidman in Stoker di Park Chan-wookNon fu uno dei meriti minori di Hitchcock, quello di dimostrare che a Hollywood, impero della convenzione, si potessero fare film meno convenzionali di quelli girati in patria (nel suo caso, in Inghilterra). Di tutta la fitta schiera di posthitchcockiani che si sono susseguiti negli ultimi decenni costeggiando (o in qualche caso sfondando) la barriera del cosiddetto “postmoderno”, l'unico a potersi permettere il lusso di bissare quel gesto del Maestro poteva essere solo Park Chan-Wook.

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Stoker è infatti un'opera molto, molto meno convenzionale di quelle girate in Corea. Un progetto che, più che rischioso, si vota da subito al fallimento: c'è poco da stupirsi se il pubblico, assai probabilmente, rimarrà freddo.

Quel poco di narrativo che c'è (la neo-maggiorenne India Stoker alle prese con la morte del padre e con l'arrivo di un misterioso zio) è ampiamente mutuato da L'ombra del dubbio (solo uno dei numerosi riferimenti hitchcockiani) ed è talmente esile che di fatto lascia il film in un vuoto pneumatico riempito alla grande dall'usuale calligrafia di Park, qui davvero scatenato nel tratteggiare continue, manieriste fioriture grafiche che sembrano accumularsi con assoluta gratuità prima di ripiegarsi, col tempo, in simmetrie che hanno lo stesso peso irrevocabile del Destino.

Fumo negli occhi? Non solo. Non si tratta solo di saziare gli occhi e fregarsene della storia. La “carta da parati” di Park, così incline a ripiegarsi simmetricamente in due, a un certo punto rimpiazza e diventa la storia. Crescere, per India, non vuol dire affrontare una qualche minacciosa profondità (il sesso in Stoker è qualcosa da dribblare, e basta): significa scegliere tra due simmetrie: quella “biologica” con la madre o quella col luciferino zio, immagine allo specchio che le perviene galleggiando sul nulla. Significa passare dal giallo al rosso; colori che Park organizza in assillanti rime visuali. A uccidere, può bastare una matita. L'Azione, quella con la “a” maiuscola, può essere benissimo un mero slittamento della superficie. Non c'è nulla di meno innocuo di chi, come India (e a suo modo lo stesso Park), se in una lezione di disegno deve disegnare un fiore, lo trascura completamente per concentrarsi sui motivi simmetrici che decorano l'interno del vaso. Solo in apparenza, l'apparenza è solo apparenza.

 

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    5 commenti

    • interessante… sembra un'opera più complessa di come è stata liquidata da molta stampa al sundance

    • LOL, le opere coreane di Park sarebbero convenzionali?!

    • Se c'è una ragione per cui Park ha perso un po' di credito tra i cosiddetti cinefili è proprio la non convenzionalità di I'm cyborg e Thirst. Detto questo, massima attesa per uno dei massimi registi viventi

    • capisco, I'm a cyborg e Thirst sono effettivamente ancora meno convenzionali dei suoi film precedenti. Parlerei allora di vari livelli di "non convenzionalità", invece dall'articolo sembra di capire che il recensore considera "convenzionali" film come la trilogia della vendetta e Old Boy.

    • hmm… no, io intendevo questo: ció che Park ha girato in Corea é poco convenzionale, ma Stoker lo é ancora meno.