Pesaro 50 – Kombinat “Nadezhda” (Fabbrica di nome “Speranza”), di Natalija Meschaninova (Sguardi al Femminile)

Kombinat “Nadezhda” è la storia di gruppo di probabili amici, che sembrano stretti più da un senso di solitudine personale piuttosto che da un qualsiasi sentimento che li leghi. Nel profondo nichilismo di questi personaggi Natalija Meschaninova ritrae una città fredda e malsana, devastata e irrecuperabile, forse specchio estremo di un Paese rabbioso e il racconto si fa efficace nel ritmo teso dei tagli netti di montaggio, nella perfidia quasi primordiale dei suoi protagonisti.

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Norilsk è una città situata oltre il circolo polare artico, deve la sua esistenza e la sua economia ad una fiorente, per quanto devastante, industria metallurgica. In questa città, così degradata, vivono Sveta e suoi amici. Sveta è innamorata di Max che vive lontano, ognuno dei suoi amici ha un sogno che non può realizzarsi a Norilsk; anche Nadja la rivale tanto odiata da Sveta.

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Natalija Meschaninova proviene dal lavoro televisivo e dopo un paio di cortometraggi e un documentario si cimenta con il lungometraggio realizzando questo film così pessimista, nervoso nel suo ritmo discontinuo e nel suo indugiare nelle situazioni. L’aria che si respira dentro questa storia in cui non vi sembra essere spazio per rapporti amichevoli profondi e duraturi, è malsana, così come lo è l’atmosfera della città che sembra condizionare e ammalorare i rapporti tra le persone. La solitudine di Sveta che si sente incompresa e matura un odio perfino eccessivo verso Nadja sua concorrente in amore, si trasforma in desiderio di morte e senza alcuno scrupolo spinge la sua nemica verso quella direzione. Sveta e il suo gruppo di probabili amici, che sembrano stretti più da un senso di solitudine personale piuttosto che da un qualsiasi sentimento che li leghi, consumano i loro giorni tra precari pic nic all’aperto, in cui ogni emozione sembra bandita diventando solo occasione per solenni e sguaiate bevute.

La frattura di ogni legame, l’incapacità a stabilirne e l’assenza di qualsiasi forma di solidarietà spinge i protagonisti verso le proprie derive e questo diventa il dato principale del film che sembra celebrare un rito del disincanto. L’orizzonte sembra farsi stretto riducendo qualsiasi speranza di fuga, devitalizzando ogni aspirazione al futuro in un misto di stanchezza e rituale gratuita cattiveria, consumando inutilmente il tempo che passa. Su questa disillusione e sul dolore affogato nell’alcol e nella rabbia, che resta l’unico sentimento utile a segnare i rapporti, sta tutta la cattiveria di questo film duro da digerire nella sua ispida respingenza e livida fattura. C’è un profondo nichilismo in questa sciatta gioventù incapace a realizzare speranze e desideri e il racconto si fa efficace nel ritmo teso dei tagli netti di montaggio, nella perfidia quasi primordiale dei suoi personaggi, nella eliminazione impietosa di cuore e sentimenti, nell’avere ammansito ogni istinto remissivo e qualsiasi scrupolo di coscienza. Di contro è forse la generazione precedente, i genitori di questi ragazzi a credere nella possibilità di un futuro in quei luoghi perché il loro benessere è stato realizzato su quel modello di crescita così devastante.

Resta solo la fabbrica della “speranza” come recita il titolo, ma quella merce non trova alcuno sbocco nella grande arena della realtà quotidiana. Natalija Meschaninova ritrae una città fredda e malsana, degradata e irrecuperabile, forse specchio estremo di un Paese rabbioso, lambita da una tundra silenziosa che sembra assistere a queste cattiverie e assorbire nel silenzio il dolore che insopportabilmente cresce.

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