LACENO D'ORO 2014 – "Tra cinema e realtà", la Master Class di Jia Zhang-ke

Sentire parlare Jia Zhang-ke è sempre un’esperienza particolare. È un pomeriggio piacevolissimo: Jia sembra molto a suo agio, spazia dagli esordi all’ultimo film, si “svela” come artista e come spettatore inanellando sorrisi e ragionamenti illuminanti

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Sentire parlare Jia Zhang-ke è sempre un’esperienza particolare. Perché prima ancora del cinema e prima ancora di ogni fertile diversità culturale, a Jia basta veramente pochissimo per conquistarti con la sua semplicità, la sua umanità e il suo sguardo fanciullo. La suggestiva location, questa volta, è quella dell’ex carcere borbonico di Avellino dove si è tenuta l’attesa Master Class ospitata dal Laceno d’Oro 2014 (nell’ambito di una più ampia retrospettiva che il Festival ha quest'anno dedicato al regista cinese). Una sala gremita, tanto interesse della gente e una stupenda presenza silenziosa seduta in platea: la moglie/musa/attrice Zhao Tao che sprigiona un fascino magnetico. Alle domande, poi, ci pensano tre ottimi colleghi "selvaggi" come Aldo Spiniello, Sergio Sozzo e Leonardo Lardieri, coadiuvati dal direttore dell’Asian Film festival Antonio Termenini. È un pomeriggio piacevolissimo: Jia sembra molto a suo agio, spazia dagli esordi all’ultimo film, svela aneddoti tra un sorso di tè caldo e un altro, si “svela” come artista e come spettatore inanellando sorrisi e ragionamenti illuminanti.

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Sei d’accordo che c’è una cesura nel tuo cinema: dopo una prima fase fortemente improntata alla ricerca di un realismo cinematografico, i tuoi film si sono pian piano contaminati con uno stile più astratto.

Sicuramente Still Life per me è stato fondamentale. Nella prima fase della mia carriera mi interessavano gli ambienti realistici e i cambiamenti sociali e politici che avvenivano in Cina. Da Still Life in poi ho incominciato a interessarmi di meno all’aspetto politico approfondendo la Storia del mio paese e la memoria ancora rintracciabile nelle persone. Mutare lo stile è stato un fatto naturale.

In parecchi tuoi lavori ci sono varie citazioni a film apparentemente molto diversi dai tuoi: pensiamo a John Woo o Johnnie To. È un cinema che ti ha ispirato?

Si, ma prima di ispirarmi è stato il cinema che vedevo spessissimo, perché quei film si potevano tranquillamente guardare senza censure. Ed è vero che sotto tanti punti di vista il cinema di John Woo mi ha influenzato, credo per esempio che i personaggi di Still Life abbiano in fondo le stesse caratteristiche emotive di quelli di Woo.

Quanto la censura così vigile nel tuo Paese ha influenzato la produzione dei tuoi film?

Ma in realtà non è tanto una questione di produzione, in fondo i soldi per fare dei film si trovano sempre. Il problema viene dopo perché non sempre i film possono essere visti, ed è chiaramente un problema. In fondo è solo negli ultimi vent’anni che il cinema cinese sta iniziando a sondare il carattere e l’indole dei suoi protagonisti, sino agli anni ’90 era difficile tutto questo. Certamente le visioni clandestine dei film ci hanno sempre aiutato. Io per esempio devo molto ad Antonioni per quel che riguarda la costruzione degli spazi nei miei film. Ma prima ancora del cinema, è stata la musica a cambiare tutto. La musica è stata importantissima perché sono le canzoni ad aver detto per prime IO e non solo NOI, ed è per questo che ci tengo moltissimo alle colonne sonore dei miei film. In Cina al tempo della Rivoluzione Culturale non si poteva che parlare del noi, solo molti anni dopo il cinema lo si è declinato in prima persona, e in questo la cultura popolare ha avuto un ruolo di primo piano.

Sia nel cortometraggio di Venezia 70 – Future Reloded che in I Wish I Knew hai usato una piccola scena di un vecchio film di Fei Mu del 1948, Primavera in una piccola città, perché è così importante per te?

Perchè quella scena racconta per immagini un amore complicato e quindi presuppone un forte desiderio di libertà in quei due personaggi. Una Cina più aperta. È una scena molto importante per me e vi chiederete perché la uso così spesso evocandola nei miei film. Vi posso solo dire che credo proprio che continuerò a utilizzarla anche in futuro.

Nel tuo cinema c’è sempre un sottile confine tra “realtà” e “finzione”, tra costruzione cinematografica e irruzione del caso. Ci tieni sempre molto a creare situazioni che devino il percorso dei tuoi protagonisti e si aprano a infinite possibilità della vita…

È vero. Io di solito ho le mie storie scritte e definite, ma poi accade sempre qualcosa che mi trascina nell’ispirazione del momento. Una casualità che prende il sopravvento e io la filmo così com’è. Perché per me è quella casualità il vero spettacolo.

Nel tuo corto di Venezia 70 insisti molto sulla proliferazione degli schermi, sulle nuove possibilità di fruizione dei film, su tante questioni aperte dalla nostra epoca insomma. Ma se è così facile produrre e vedere immagini, dov’è oggi il cinema? E dov’è il confine tra reale e cinema?

Io credo che l’immagine sia sempre realtà. Perché la realtà in fondo è sempre una fotografia dell’immagine. In Still Life mi sono rifatto a molti racconti popolari che ho sentito dalla gente comune, storie evidentemente diventate realtà per quella gente. Ecco cosa cerco allora: la libertà di poter mischiare immagine e realtà, perché è solo da questa commistione che può nascere ancora oggi una riflessione.

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