CANNES 65 – “Paradis: Amour”, di Ulrich Seidl (Concorso)

paradis amour
Primo anello di una trilogia su tre figure femminili della stessa famiglia, apparentemente piu' innocuo rispetto all'opera precedente del regista austriaco, in realta' ancora l'esempio di un cinema respingente in tutto per tutto di cui non si sa che farsene, sguardo documentaristico di un turista annoiato dove l’occhio deve catturare proprio quello che non si muove, anche se è poco interessante

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paradis amourVorrebbe essere un film sul turismo sessuale. Ma anche uno dei film meno convincenti di Laurent Cantet come Verso il sud gli da una pista a Paradis. Amour, primo anello di una trilogia che disegna il ritratto di tre donne della stessa famiglia che, ognuna per sé, trascorrerà le sue vacanze. Questa pellicola sarà infatti seguita da Paradis: Fede (la missione cattolica) e da Paradis: Speranza (un campo dieta per teenager). Tre storie, tre luoghi. Dove il regista tedesco Ulrich Seidl utilizza sempre lunghi piani fissi, spesso attraversati dai suoi personaggi in cui si vede l’entrata e l’uscita dal campo visivo e in cui lo sguardo documentarista del cineasta inquadra indifferentemente luoghi, figure, oggetti con la stessa monotona indifferenziazione.

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Paradis. Amour è ambientato sulle spiagge del Kenya dove tra le persone che ci vanno in vacanza ci sono donne europee che, in cambio di un po’ d’amore, assicurano un po’ di sussistenza economica ai giovani ragazzi del posto. Tra queste c’è Theresa, madre di una figlia adolescente che va in questo paradiso esotico e si rende ben presto conto che l’amore è qualcosa che si compra.

 

Quello di Seidl è un cinema respingente in tutto e per tutto. Magari c’è una crudeltà meno compiaciuta rispetto a Canicola o forse la si percepisce così perché l’uniformità, la distanza dello sguardo di Seidl ci ha in qualche modo abituato. Anche se subito in apertura viene già voglia di abbandonarlo: ragazzi con handicap sulle auto a scontro, spaventati dai rumori e dagli urti che il cineasta immortala come fredde istantanee, incurante anche degli effetti di quello che sta filmando e forse dei limiti. Il problema è che non è più un documentario e la manipolazione messa in atto – che ha attraversato tutto il suo Import/Export – proprio nella costruzione ha qualcosa che somiglia a un cinema quasi solo come sfruttamento. Perché questa pellicola è sullo sfruttamento. Carnefici che diventano vittime e viceversa. Stesse stanze dove si consuma l’inganno, dove c’è una continua mortificazione (la scena della festa del compleanno nella stanza della protagonista assume contorni quasi sinistri proprio nell’indifferenza che sconfina nell’umiliazione).

Quella di Seidl, in trasferta in Kenya, è la visione di un turista anche molto annoiato. Le foto di Therese sui bambini che dormono nella scuola sono forse la perfetta metafora della sua opera. Dove l’occhio deve catturare proprio quello che non si muove, anche se è poco interessante. Proprio per non perdere nulla dal proprio controllo. Di un cinema così non si sa che farsene.   

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