CANNES 65 – “The We and the I”, di Michel Gondry (Quinzaine des Realisateurs)


Gondry ogni volta mette in scena la potenziale possibilita’ dell’uomo di fare cinema in ogni momento, con ogni cosa, ogni sprazzo, ogni oggetto, ogni scarto, ogni invenzione, ogni discorso da autobus. E allora questa corsa di un’ora e mezza verso casa, nell’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze, per forza di cose e’ vittima di forzature e di idee che non sempre vanno a segno. Pero’ a bordo dei film di Gondry  ti capita puntualmente quel momento in cui la girandola dei capitomboli visivi e delle trovate di regia fenomenali frena di botto; ed e’ li’ che Michel Gondry lascia il cuore del suo cinema

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Continua ad essere un irresistibile rewind il cinema di Michel Gondry. Ancora una volta Gondry scova il cinema in un angolo, e per un po’ ti lascia credere che sia tutto li’, nella sfida di fare un intero film a bordo di un bus (a conti fatti piu’ vicina al Fifteen Minute Hamlet di Tom Stoppard che a Bus in viaggio di Spike Lee), come rigirare i cult della storia del cinema con mezzi amatoriali o raccontare una certa Francia rurale attraverso la vicenda della zia maestra di campagna. Ma piano piano, come sempre succede nei lavori piu’ liberi e indipendenti di questo autore che si prende tutta la liberta’ e la sfacciataggine di fare un film del genere dopo una produzione come quella di Green Hornet, Gondry svela il trucco, mostra i fili che reggono la messinscena, e arriva dritto al cuore di quell’I che sta dietro al We.
Gondry sa bene che oggi come oggi you can’t be neutral on a moving train, anche perche’ fermi non riusciamo piu’ a esserlo davvero mai (qui la metafora del bus perennemente in movimento sul quale, seduti, i ragazzi protagonisti intrecciano le loro storie, e’ particolarmente lucida e lampante), e cosi’, alla stregua di quanto da decenni va operando nelle sue regie di videoclip, sfonda continuamente lo spazio del mezzo di trasporto (e del mezzo di comunicazione), con ripetuti inserti spuri (e altrettanti, nuovi rewind), clip riprese coi videofonini che rimbalzano tra i cellulari dei ragazzi, visioni, bozzetti, disegni, fotografie. In quel bus puo’ entrare tutto il mondo, e viceversa il mondo intero puo’ spuntare fuori da quei finestrini, e dalle porte che si aprono alle fermate. Gondry ogni volta mette in scena la potenziale possibilita’ dell’uomo di fare cinema in ogni momento, con ogni cosa, ogni sprazzo, ogni oggetto, ogni scarto, ogni invenzione, ogni discorso da autobus.

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E allora questa corsa di un’ora e mezza verso casa, nell’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze, per forza di cose e’ vittima di forzature e di idee che non sempre vanno a segno. Pero’ a bordo del cinema di Gondry, tra i pesanti scherzi scorrettissimi dei bulli dei sedili di coda e le normali paranoie dell’adolescenza per le feste e la popolarita’, ti capita puntualmente quel momento in cui la girandola dei capitomboli visivi e delle trovate di regia fenomenali (vedi qui soprattutto i tre racconti di gossip che si intrecciano tra di loro con il tipico procedimento labirintico delle visioni di Gondry) frena di botto; e rimani in silenzio senza parole davanti alle lacrime del figlio di zia Suzette, o allo scombussolato biopic sulla storia di Fats Waller assemblato dagli abitanti del quartiere di Be Kind Rewind e proiettato sui muri dei palazzi nel finale del film.
Quando i posti sono quasi tutti vuoti, intorno si e’ fatto silenzio, e si resta in pochi ad attendere le ultime fermate, allora le storie diventano davvero sincere, gli occhi smettono di mentire, le cose si mostrano nella loro intollerabile verità. Ed e’ li’ che Michel Gondry lascia il cuore del suo cinema ogni volta che mette su, mette insieme, tira fuori un film come questo.

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