CANNES 65 – “Lawless”, di John Hillcoat (Concorso)

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Il giovane Jack, lo sguardo inquieto di Shia LaBeouf, dovrà scegliere tra due idoli, due strade contrapposte. Quella di Floyd Banner, cioè l’illusione di poter dominare i tempi, e quella di Forrest, cioè la fede in un’immortalità che coincide con la consapevolezza dell'ovvietà quotidiana della morte. Non potrà che scegliere il sangue. Farsi guidare, come gli altri personaggi, gli altri interpreti, come noi, dall'immensa presenza di Tom Hardy

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lawlessNon è questione di denaro. Non lo è mai stato. Il rimprovero di Forrest Bondurant all’arrivismo del fratello Jack non potrebbe essere più chiaro. Il successo materiale, cioè lo spirito del capitalismo, non vale a conquistare un posto nel paradiso della leggenda. Non può e non deve mettere in gioco la famiglia, la necessità di una casa, di un ethos, dell’onore, dell’amor proprio.

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Ecco, tutto nasce da un fraintendimento. Il segreto della bellezza profonda di Lawless sta nello svelarsi di una deformazione prospettica. Quella che induce a confondere il luccichio di una confezione mainstream con la necessaria sostanza emotiva e morale che la sostiene, la supera, l‘assolve. È un dato di fatto che John Hillcoat non sarà mai un classico, nonostante si ostini a ricercarlo. Non potrà mai dar credito alla sua intima ambizione di riarticolare il senso della storia e del cinema. La sua America passerà sempre attraverso il filtro di una visione a distanza. Può rivivere solo di riflesso, nella citazione, da Missouri a Bonny and Clyde, passando per impazzite schegge ciminiane. Eppure, l’innocua trasparenza di Hillcoat appare quasi essenziale. Perché mostra, ancora una volta, come già in The Road, la capacità e l’umiltà di stare a parte e rendere onore a qualcosa d’infinitamente più grande. Sia la Storia o il mito, un corpo in tensione, una ruga in un volto profonda quanto tutta la Creazione.

 

In realtà, a vederlo di un sol fiato, Lawless riesce a trovare il proprio spazio in quella stretta, ma infinita linea di tangenza tra il gangster movie e il western, quel confine che separa le due grandi epopee della storia e del cinema, o della storia del cinema. Lungo il sentiero percorso da Arthur Penn, Sam Peckinpah, Michael Mann. E lo fa grazie alla stessa evidenza mitica dei suoi personaggi e delle sue trame, nonostante la verità dei riferimenti, trasfigurati dalla vitalità cupa di Nick Cave, autore della sceneggiatura (a partire dal romanzo ‘di famiglia’ di Matt Bondurant) e delle musiche, scritte e pensate a priori come un vero e proprio controcanto, un coro, un personaggio nascosto che possa dialogare con gli altri. Il film sembra davvero rispondere a una partitura, animato da un anarchico spirito folk-rock, che esplode in scatti pulp incontrollati (il taglio della gola o la scena, magnifica, in cui Jack intravede Forrest coperto di sangue come il dio della vendetta), per poi ridistendersi in una religiosità istintiva, irrinunciabile (la purezza incorruttibile del volto di Bertha, Mia Wasikowska).

 

lawlessE dietro le vicende dei tre fratelli Bondurant, contrabbandieri d’alcool nei tempi bui della crisi e del proibizionismo, si cela un’altra declinazione possibile di una rivoluzione che s’insinua nelle crepe distorte dell’ordine costituito. Nemici pubblici che si sottraggono alla vista del Leviatano, che usano il demonio ma solo per riportarlo alla sua evidenza e ucciderlo a colpi di pistola. In fondo, oltre la violenza, oltre le palpitazioni sanguinanti, la visione che guida Forrest Bondurant è l’utopia, solo all’apparenza paradossale, di una normalità eccezionale, di una salvezza oltre la crisi, di una rinascita continua aldilà della morte. Niente di più naturale, iente di più necessario. Senza legge ovvero oltre le regole, ripresi e proiettati nello spazio senza tempo della leggenda. La vita tranquilla dei Bondurant, solo incidentalmente turbata dalla convulsione degli eventi, è quella immaginata e sognata dei fratelli James di Walter Hill, mai davvero feriti dalla vigliaccheria di Robert Ford. Il giovane Jack, lo sguardo inquieto di Shia LaBeouf, dovrà scegliere tra due idoli, due strade contrapposte. Quella di Floyd Banner, cioè l’illusione di poter dominare i tempi, e quella di Forrest, cioè la fede in un’immortalità che coincide con la consapevolezza dell'ovvietà quotidiana della morte. Non potrà che scegliere il sangue. Farsi guidare, come gli altri personaggi, gli altri intrepreti, come noi, dall’immensa presenza di Tom Hardy, puro corpo esplosivo in sottrazione, filo incandescente un attimo prima dell’accensione, furia in potenza e cinema in atto, fantasma muto che si risolleva e risuscita nell’infinito ritorno dell’immagine. "Volevi passare il resto della tua vita a guardarmi?".

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