CANNES 65 – “In Another Country”, di Hong Sang-soo (Concorso)

in another country
Chi pensa che quest’ultimo, sublime Hong Sang-soo sia diverso dai precedenti, si lascia abbagliare dalla presenza di Isabelle Huppert, che viene, invece, completamente assorbita in questa assurda bolla di vetro, al punto da recitare con la stessa intontita, stralunata autoironia di tutti gli altri interpeti, più o meno abituali. Hong Sang-soo se ne frega di tutto e tutti, della necessità di cambiare, di rinnovarsi, per stare al passo coi ‘tempi’

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Anne è Anne. Sempre lo stesso volto. Ma è il punto di coincidenza di tre vite diverse. Anne è una regista francese che vola in Corea per incontrare un vecchio collega che prova a corteggiarla alle spalle della moglie incinta. Anne è la moglie di un ricco dirigente d’azienda, ma ha un amante, un famoso regista e vola in Corea per raggiungerlo. Anne è una donna in crisi per il tradimento del marito, scappato con una donna coreana. E per dimenticare vola in Corea su invito di un’amica, una professoressa di folkore presso l’università di Jeonju.

 

Tre tracce possibili di una sceneggiatura a venire si fanno riverberi di un’unica storia. Potrebbe sembare un libero esercizio narrativo. Ed è il prezzo che si paga al cinema di Hong Sang-soo, in cui partenze minimamente sfalsate arrivano a incrociarsi e sovrapporsi, fino ad abbracciars, proprio infine, in un unico punto che ricompone i frammenti (di una bottiglia di soju), ritrova gli oggetti smarriti (l’ombrello), rimette in connessione i granelli di un mandala incompiuto. In Another Country è un incrocio tra il loop vertiginoso di The Day He Arrives e la ripetizione metacinemografica di Oki’s Movie, è il rovescio di Night and Day, giorni e notti in un paese straniero che non è mai diverso, estero, ma quotidiano, comune. È una Woman on the Beach, che cerca il faro dell’amore e incontra il flirt di un bagnino. Riavvolgimenti del nastro.

 

Chi pensa che quest’ultimo Hong Sang-soo sia diverso dai precedenti, si lascia abbagliare dalla presenza di Isabelle Huppert, che viene, invece, completamente assorbita in questa assurda bolla di vetro, al punto da recitare con la stessa intontita, stralunata autoironia di tutti gli altri interpeti, più o meno abituali. Hong Sang-soo se ne frega di tutto e tutti, della necessità di cambiare, di rinnovarsi, per stare al passo coi tempi. In realtà è proprio il suo tempo a non ammettere la possibilità di una linearità, di un senso (perché, ci deve essere per forza un senso? chiede il monaco a Anne), ad apparire immobile, nella sua circolarità sottilmente imperfetta. Per lui il cinema è pur sempre una questione di riprese, inquadrature e zoomate. La continua ridefinizione di un’unica situazione (la vita) e un unico personaggio (noi, o meglio The We and the I), ottenuta attraverso l’esplosione, il frazionamento vagamente allucinato in situazioni e personaggi (appena) differenti. Tutto è già all’inizio, in quel dialogo tra la madre e la figlia sulla terrazza in riva al mare, spunto di partenza di ogni storia, di ogni variazione.  Il cinema non può che essere lo svolgimento del dopo. Deve partire da qualcosa, un’idea, un’ispirazione, un sentimento. È il destino di un congegno meccanico che registra e proietta ciò che è lì da prima, da sempre. Ma questo meccanismo, quest’impasse dei corpi e dei cuori sembra uscire finalmente dalla malinconia, incontrare per caso una liberazione. Il senso è scritto nelle linee di una mano. Cioè nella fortuna precaria di ognuno di noi. Galleggia leggero nell’eternità della finitezza delle cose. Molteplice che è da sempre nell'uno, nel medesimo di questo cinema.

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