CANNES 65 – "Les invisibles", di Sébastien Lifshitz (Fuori Concorso)


Un film lieve ma solo all’apparenza, perché nasconde ferite e dolori che restano in secondo piano, non detti ma che affiorano da ciò che si dive e, talvolta, dagli oggetti sparsi nelle case e, soprattutto, dai percorsi incrociati che questi racconti riescono ad evocare. In questo sta soprattutto l’attenta riflessione di Lifshitz, nel riuscire ad inserire ogni storia dentro un contesto necessario a definire il valore di ogni singolo gesto, scivolando con raffinata linearità dal particolare al generale, e viceversa, e affermando l’individualità di ognuno dei protagonisti intervistati

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Come condividere tanti piccoli segreti. Il lungometraggio di Sébastien Lifshitz, presentato in una proiezione speciale al Festival di Cannes, rivela tutta la capacità del regista francese di osservare i dettagli e di filmarli trasformandoli, ogni volta in rivelazioni.
Nelle molte storie che racconta in questo Les Invisibles, infatti, mette insieme una galleria di vite e di esperienze, uomini e donne che hanno deciso, molto tempo fa, di vivere senza più nascondere la loro omosessualità in un tempo in cui la società non era ancora davvero pronta ad accettarli.
Ecco perché sono diventati invisibili, subendo al contrario la reazione dei più che non li volevano vedere.
Perché lentamente, attraverso i racconti e le parole, ma anche i silenzi e certi sguardi indefiniti, questo film semplice e lieve ci mostra come, nel voler “uscire allo scoperto” i protagonisti abbiano contemporaneamente fatto cadere un velo di invisibilità attorno a loro. Non ci sono premesse né spiegazioni.
Tutto affiora via via, nel procedere dentro esistenze diverse e particolari, esaminando di ognuno le scelte lavorative ed esistenziali, nel guardare i lorio gesti abituali, nei luoghi della loro quotidianità, nelle differenze sensibili che ognuno sa mettere in evidenza.

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C’è la coppia che si dedica agli uccelli in una sorta di clinica dove salvare e allevare uccelli in difficoltà, c’è il vecchio che ha allevato capre tutta la vita e non ha mai voluto nascondere la sua identità, ci sono le due donne che, invece, hanno deciso di vivere in una fattoria dove fare il formaggio di capra.
Tutti con esemplare sincerità coinvolti in uno scambio di confidenze che include anche l’uso di fotografie e immagini di archivio grazie alle quali si elabora, contemporaneamente, il ritratto di una generazione e di un periodo storico.
In questo sta soprattutto l’attenta riflessione di Lifshitz, nel riuscire ad inserire ogni storia dentro un contesto necessario a definire il valore di ogni singolo gesto, scivolando con raffinata linearità dal particolare al generale, e viceversa, e affermando l’individualità di ognuno dei protagonisti intervistati.
Un film lieve, si diceva, ma solo all’apparenza, perché nasconde ferite e dolori che restano in secondo piano, non detti ma che affiorano da ciò che si dive e, talvolta, dagli oggetti sparsi nelle case e, soprattutto, dai percorsi incrociati che questi racconti riescono ad evocare.

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