VENEZIA 69 – "Love Is All You Need", di Susanne Bier (Fuori concorso)

Fatta salva una sorprendente e tutto sommato piacevole leggerezza priva di grosse ambizioni (registiche e filosofiche), c’è qualcosa che non torna più nel cinema della Bier, sempre più ripiegato su se stesso. Love is all you Need è una commedia sui surreali risvolti dell’amore che fonde gli ormai collaudati nuclei tematici del nuovo cinema danese (il rito del matrimonio, la riunione di famiglia, il ballo di maschere) alle atmosfere di una certa romantic comedy statunitense. Lode alle intenzioni, ma non basta…

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Di nuovo un matrimonio, di nuovo una malattia, di nuovo rapporti familiari. I padri e i figli immersi nel rito. Il nuovo cinema danese (quello sponda Zentropa) sembra ormai aver assimilato questi nuclei tematici come croniche “variazioni” (vontrieriane?) su tema, da piegare a vari generi, storie o personalità registiche. E allora eccolo il cinema di Susanne Bier che si presenta dalla prima inquadratura come un dialogo mai interrotto col passato: una donna in crisi, un cancro diagnosticato, una coppia divisa. Solo che questa volta il tono scelto è quello di commedia romantica agrodolce tra la plumbea Danimarca e la solare Italia, paese del “sole e dell’amore” dove la classica danza di maschere familiari può (ri)annodare i suoi fili.

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Ida è la donna in crisi, mamma di Astrid che sposerà il giovane Patrick a Sorrento nella casa del padre Philip, dove la sgangherata combriccola danese passerà un lungo e travagliato week end. Ida e Philip si incontrano, si detestano, si conoscono, si piacciono… insomma il cinema di marca zentropa che incontra le atmosfere di una certa commedia romantica americana (che idealmente può andare da Garry Marschall a Cameron Crowe). E, pensandoci bene, questo mix risulta da subito curioso e interessante. Ma purtroppo c’è qualcosa che ormai non torna più nel cinema della Bier, che lo rende eccessivamente frenato e ripiegato su se stesso: il dramma di Ida traformato in favola da Philip sullo sfondo del tragicomico matrimonio dei figli depotenzia (fortunatamente) ogni vecchia ridondanza registica ma non ha mai la forza di trasformarsi in qualcos’altro dopo il matrimonio. La forza di (sor)prendere sul serio lo spettatore.

E allora si ha bisogno di un nuovo “spazio” per far respirare i soliti caratteri: l’Italia. Diciamo subito che il “panorama” di stereotipi cinematografici sul Bel Paese si presenta qui al gran completo – paesaggi da cartolina, musiche melodiche, trattorie tipiche, “vino, olio, carne, tutto quello che vuoi…” dice quel Ciro Petrone di garroniana memoria – ma in fondo non è più nemmeno il caso di sottolinearlo. E risulta tutto sommato appropriato anche l'evidente omaggio a Il Postino di Troisi, che ammanta di un lieve velo di nostalgia le inquadrature del paesaggio campano. Il fatto però è che questi personaggi appaiono come chiaramente orfani di un cinema che li ha creati e forgiati ma che sembra nel 2012 francamente stanco e un po’ ripetitivo. Si potrebbe anche andare oltre quest'osservazione e dire che paradossalmente sta proprio qui il dato interessante del film, in quella piacevole leggerezza priva di grosse ambizioni (registiche o filosofiche) che la Bier ha sempre manifestato nelle sue regie. L'amore senile che sfida le pesantezze della gioventù e che per questo ne esce vincitore: lodevole intenzione, ma purtroppo non basta. Perchè poi si assiste ad un film a cui manca sia il soffio vitale del genere americano sia quella fastidiosa dose di sfrontatezza tipica del cinema danese anni ’90. Un film "stanco" con isolate scintille di comicità condite da qualche primo piano di sentita umanità…il cinema di Susanne Bier potrebbe anche ripartire da qui.

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