VENEZIA 69 – “Blondie”, di Jesper Ganslandt (Giornate degli Autori)

blondie

Ganslandt si appoggia al classico schema della riunione di famiglia come momento di resa dei conti, con l’unico elemento di originalità rappresentato dal fatto che quella raccontata è una famiglia matriarcale nella quale i personaggi forti sono quelli femminili. Ma è davvero troppo poco per poter pensare di portare aria fresca in un genere che sembra davvero essere stato spremuto al massimo.

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blondieAlla fine Ganslandt, per il suo terzo film (ancora una volta a Venezia, ancora una volta alle Giornate degli Autori dove era già stato nel 2006 con il suo primo film e nel 2009 con il secondo: una specie di record!), quello che dovrebbe essere della maturità (Troisi insegna) decide di non rischiare e prova ad andare sul sicuro con il tema dei temi del cinema scandinavo: la riunione di famiglia che da Bergman in poi, ma soprattutto dopo il trattamento “vontrieriano” del Festen di Vinterberg sembra rappresentare quello che l’O.K. Corrall rappresenta per la città di Tombstone: il luogo della resa dei conti.

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L’impianto, allora, è quello classico: riunione di famiglia borghese per i settant’anni della madre con chiamata a raccolta delle tre figlie che vivono vite diversamente in crisi: Katerina (la più affidabile) sposata con due figli che sfoga l’insoddisfazione con il giovane amante, Elin (la più fuori controllo e rancorosa verso la madre) modella, cocainomane, dalla vita disordinata e Lova, la più fragile emotivamente, che soffre di crisi di panico, ma il personaggio rimane troppo abbozzato perché lo spettatore che capisca le ragioni.

 

Come si è detto lo schema è quello classico (perfino con una divisione per quadri che fa molto Von Trier): presentazione della famiglia, distruzione e ricomposizione attraverso un avvenimento traumatico. A ben vedere, l’unico elemento di discontinuità con le molte opere del genere (seppure in modo diverso, anche il film della danese Bier presentato qui al Lido fuori concorso gira in torno agli stessi temi), sta nel fatto che nel film di Ganslandt più che ad una famiglia siamo di fronte ad un matriarcato (del padre non abbiamo notizie) con gli altri uomini del film (mariti, amanti) che si ritrovano spettatori passivi delle scelte delle compagne e che, a mala pena, riescono a farfugliare qualcosa. Ma è davvero troppo poco per poter pensare di portare aria fresca o, quantomeno, un pizzico di originalità in un genere che sembra davvero essere stato spremuto al massimo dalla cinematografia scandinava tanto da rasentare i confini dell’ossessione.

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