VENEZIA 69 – "Anton's Right Here", di Lyubov Arkus (Fuori concorso)

anton's right here

Eccezionale, commovente esperimento documentario, Anton's Right Here segue per quattro anni un ragazzo autistico pietroburghese, ne misura evoluzioni ed involuzioni a contatto con diversi ambienti entrando in intimo contatto con lui e con l'umanità tutt'intorno, indovinando un approccio formale perfetto per raccontare una circostanza spinosa come quella

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anton's right hereAnton è un ragazzo autistico che nel 2008 incrocia Lyubov Arkus (figura di spicco della critica cinematografica russa) e soprattutto la sua cinepresa: da quel momento in poi, la Arkus lo seguirà per quattro anni lungo il suo difficile percorso passando per cliniche che non fanno che peggiorare la situazione (da una delle quali Anton fugge grazie all'intercessione della cineasta stessa), benintenzionate comunità di disabili che, nonostante tutta la buona volontà possibile, non riescono ad ovviare a pressanti problemi di relazione, e infine una situazione famigliare poco agevole, con una madre malata terminale e un padre le cui spalle non sono abbastanza forti per potersi prendere cura di Anton. Fin dai primi minuti la Arkus mette in chiaro che la propria posizione non è quella di osservatore esterno, e non solo quella di osservatore partecipe, bensì di qualcuno che avverte in sé e nella propria storia personale un'affinità sostanziale con l'attitudine autistica del soggetto osservato – attitudine che pure si deve rimuovere per vivere nel mondo “normale”.

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Come tutti gli esperimenti documentari davvero straordinari, Anton's Right Here lavora a partire da un cortocircuito serrato tra soggetto e oggetto, tanto serrato che nel finale si enuncia chiaramente che la vera protagonista di tutta questa odissea è la macchina da presa stessa. È l'abbondante materiale filmato visto al monitor in fase di montaggio, infatti, a illuminare la madre morente che non può vedere il figlio, nonché a convincere il padre a prendere finalmente in mano la situazione e riaccogliere il figlio. Soprattutto, questo folgorante, vorticoso mosaico ha un andamento “a salti” altrettanto accidentato delle interazioni tra Anton e il mondo, un turbinoso mulinare di frammenti in cui si mischiano con calcolata caoticità azioni, percezioni estemporanee e scampoli di ritratto di Anton. Particolarmente significativo il modo in cui la Arkus ha risolto questi ultimi: un soggetto del genere, condannato dalla sua patologia a un'opaca spontaneità e dunque automaticamente portatore di un potenziale “esplosivo” di fotogenia, viene filmato dalla Arkus in modo quasi elusivo, di sfuggita – non per trascurare, ma per meglio evidenziare i cambiamenti nel tempo di Anton a seconda delle situazioni, degli ambienti, delle persone che gli stanno intorno. In questo senso, si può ben dire che la cinepresa della Arkus è meno interessata a intercettare l'espressività di Anton qui-ed-ora che a protenderla nel tempo attraverso il montaggio per meglio cogliere e rilevare diacronicamente sul suo volto le evoluzioni e le involuzioni del suo caso. Il suo approccio ai materiali, tutt'altro che Anton-centrico, finisce così per abbracciare ampie porzioni di umanità intorno a lui, perché le tortuose vicende quotidiane di Anton sono, in una certa metonimica misura, quelle dell'umanità stessa nel suo carattere esploso, eterogeneo, non totalizzabile – è questo, del resto, il succo del saggio “La gente”, scritto da Anton e piazzato in chiusura del film. Il faticoso, infinito lavoro maieutico di Anton è dunque quello dell'umanità tutta nella sua inesausta cacofonia, che la Arkus è bravissima a ricostruire con il suo montaggio, con gli eccezionali colori del suo digitale attentissimo alla misura del calore cromatico (un calore, ovvio, anche immediatamente emotivo) e privo di sbavature, con l'illuminante filo logico ed evenemenziale intessuto dalla pressoché onnipresente ma sempre lucidissima voce over.

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