FESTIVAL DI ROMA 2012 – "A walk in the park", di Amos Poe (Cinemaxxi)


Una specie di versione newyorkese e decisamente più oscura del superbo L'epine dans le coeur di Michel Gondry: anche il cineasta francese era continuamente impegnato nella ricerca della forma e del formato giusti per restituire il potente dramma interiore nascosto sotto la superficie del suo documentario – allo stesso modo, Poe lavora di filmati familiari e nastri amatoriali girati dal suo protagonista, e frulla insieme immaginario privato e immaginario cinematografico, imbastendo un'unica enorme rappresentazione del passato 

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L'evidente trattamento digitale che Poe effettua sulle sequenze di "intervista" a Brian, il protagonista di questo suo nuovo folgorante lavoro, con le sagome ultracontrastate in silouette nera su colore di sfondo superstilizzato, all'inizio danno l'impressione di trovarci davanti ad un nuovo esperimento con il rotoscopio, di quelli che piacciono a Richard Linklater. Ci si accorge subito poi che non è così, però A walk in the park avrebbe potuto davvero tranquillamente appartenere al filone dei Waking Life, appunto, ovvero quei viaggi interiori nell'anima di un uomo in cui l'oscuro scrutare nel labirinto della mente si traduce in una continua frenesia e straticazione delle forme e degli stili, nel tentativo sempre mutevole di imprimere le immagini incontrate nel momento stesso in cui vengono originate dal dolente brainstorming nella memoria.
I riferimenti e le coordinate sono ovviamente quelli dello sperimentalismo indie USA, tra giochetti formali e supercitazionismi che potremmo ritrovare ad esempio in un lavoro dell'ultimo Jonas Mekas (un armamentario fittissimo di stralci da romanzi, poesie, dialoghi di magnifici scrittori da EAPoe a Carroll a DFWallace, e l'immancabile Patti Smith salmodiante in colonna sonora), e frammenti di fiction ricostruita e brechtiana che ricordano un po' le scenette di morti celebri in camere di hotel imbastite e inserite da Abel Ferrara nel suo magnifico Chelsea on the rocks.

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Il risultato è una specie di versione newyorkese e decisamente più oscura del superbo L'epine dans le coeur di Michel Gondry: anche il cineasta francese era continuamente impegnato nella ricerca della forma e del formato giusti per restituire il potente dramma interiore nascosto sotto la superficie del suo documentario – allo stesso modo, Poe lavora di filmati familiari e nastri amatoriali girati dal suo protagonista, e frulla insieme immaginario privato e immaginario cinematografico, imbastendo un'unica enorme rappresentazione del passato che si muove senza soluzione di continuità tra frammenti di Hitchcock e nastri rubati di apparentemente innocui litigi tra madre e figlio, titoli di film notissimi utilizzati per scandire i capitoli della vicenda, e messaggi in segreteria telefonica di agghiacciante odio e violenza.
Il senso non è tanto allora nella passeggiate al parco (che infatti Poe mostra pochissimo), ma in quella sorta di infinitesimale ma abissale sommovimento dell'animo che ci convince ad alzarci dal divano proprio per raggiungere il nostro Central Park: il film di Poe sembra raccontare precisamente quell'istante lì, quello della decisione, scavando in profondità a tutto quello che c'è sotto la decisione di uscire a prendere una boccata d'aria.

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