"C'era una volta in America (Director's Cut)", di Sergio Leone

c'era una volta in america
C’era una volta in America oggi, nella sua versione più lunga, con scene reintegrate, è come tornare alle origini di un amore. Sergio Leone in questa storia di gangster ebrei newyorkesi nei primi anni del Novecento filma la “sua” vita, la magnifica ossessione eternamente fanciulla dell’essere spettatore…

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c'era una volta in americaRivedere C’era una volta in America oggi, su grande schermo, in versione integrale e restaurata, fa uno strano effetto. Per chi ha incominciato ad amare e “mangiare” cinema tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 l’ultimo film di Sergio Leone ha sempre assunto un ruolo particolare: gli inizi di un amore, il film fiume, lo Spettacolo del Mito, l’esperienza filmica per eccellenza insieme a Novecento di Bertolucci o I cancelli del cielo di Cimino. Dieci anni di attesa per realizzarlo, una produzione lunghissima e un montaggio travagliato che ha partorito varie versioni, sono il frutto di un film/esperienza che lo stesso Leone sintetizza magnificamente citando una frase di Joseph Conrad: “Credevo fosse un’avventura, invece era la vita”.

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Ecco, è esattamente questo che ancora oggi stupisce e travolge del film: Sergio Leone in una storia di gangster ebrei newyorkesi nei primi anni del Novecento filma la "sua" vita, filma la magnifica ossessione eternamente fanciulla dell’essere spettatore e filma la folle idea di un cinema orgogliosamente indipendente da ogni (neo)realismo. Lo sguardo dell’europeo Leone è fatalmente al di qua rispetto all’America e ai suoi miti, ma la sua passione viscerale produce sublimi cattedrali erette solo su mura di celluloide: il trionfo del profilmico, degli enormi set/mondo, della musica/tempo di Morricone e dei generi cinematografici che partoriscono la vita solo nei primi piani insistiti degli attori.

Il Noodles di Bob De Niro è in fondo l’eterno fanciullo spettatore che diventa improvvisamente regista. Continuerà a guardare innamorato Deborah da lontano: da ragazzo, attraverso la famosa fessura nel bagno mentre lei balla tra la farina; o da vecchio mentre lei recita Cleopatra in un teatro di pesanti maschere (in quella che forse è la più bella e commovente scena reintegrata in questa versione lunga di 4 ore e 20 minuti). Perché Deborah è il cinema di Noodles: “in galera dovevi non pensarci che fuori c’era il mondo, dovevi dimenticauna scena reintegratarlo per non impazzire, ma due cose non riuscivo a togliermi dalla mente: la prima era Dominick quando prima di morire mi disse sono scivolato. E l’altra eri tu. Tu che mi leggevi il cantico dei cantici, ricordi? Nessuno t’amerà mai come t'ho amato io”.

L’inerme Noodles che guarda e sogna si trova improvvisamente in un teatro d’ombre cinesi (le ombre, la materia prima dei film) e produce finalmente una sua storia, una sua versione dei fatti probabilmente irreale, ma pura e autentica sentimentalmente. Ha ragione Quentin Tarantino quando dice che questo film è il vero testamento artistico e umano di Sergio Leone, perché nascosto nei meandri del genere, dei ganster, delle amicizie virili, del Mito americano e delle pallottole che ammazzano, c’è un regista/ragazzino che “sogna tra le ombre” e che si permette di sorridere guardando dritto in macchina alla fine del suo film/giocattolo. Rivedere oggi C’era una volta in America, con le sue scene reintegrate che hanno sofferto un po' gli anni di isolamento – gli encomiabili sforzi di restauro non possono espungere quella “bellissima” opacità della vecchia pellicola ritrovata – fa pensare che forse l’unica risposta possibile alla tanto sbandierata morte del cinema odierna, risiede proprio nel conservare la primigenia passione in ogni tipo di nuova e sacrosanta “contaminazione”. Conservare lo scintillio (come qualcuno non si stanca mai di ripetere). Continuare a guardare Deborah ballare…

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