“La fine del mondo”, di Edgar Wright

La fine del mondo

Più che una saga, un'idea di cinema come forma di resistenza, che sta fra il desiderio di preservare il perimetro descritto da un immaginario che si avverte come proprio, e la voglia di far trionfare la verità dei personaggi assecondandone le spinte, aprendo squarci di verità autentica nella vicenda “di genere”

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La fine del mondoIn origine furono Shaun of the Dead e Hot Fuzz, che (un po' forzatamente) sono stati poi ricondotti nei binari della saga, definita “del Cornetto” per la presenza, in entrambi i casi, dell'iconico gelato Algida. Edgar Wright però non è tipo da franchise (tanto che riponiamo in lui le speranze perché Ant-Man rompa l'immobilismo delle trasposizioni Marvel mostrandoci finalmente un po' di carattere) e quindi, oggi che arriva finalmente nelle sale il nuovo capitolo della “trilogia”, davanti ai nostri occhi si offre un'opera straordinariamente compatta e abbastanza autonoma rispetto alle precedenti. Se il “Cornetto” stavolta è solo una cartaccia portata dal vento in un veloce passaggio, i ruoli canonici sono anzi invertiti: il corpaccione incontenibile e johnbelushiano di Nick Frost rappresenta l'elemento razionale e “solido” della squadra, Simon Pegg, già irreprensibile tutore dell'ordine, diventa invece l'agente del Caos.

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A Edgar Wright, in fondo, interessa raccontare delle storie, le sue: il cinema per lui è una forma di resistenza. Termine da intendersi a livello generale, come capacità di non cedere alle lusinghe della “formula” più banale, ma anche sul piano squisitamente narrativo, che è poi quello in cui i suoi personaggi si oppongono a una minaccia più ampia (zombie, serial killer o alieni) e spesso lottano anche tra loro per far prevalere uno specifico punto di vista. Sarà anche per questo che ne La fine del mondo, nonostante il tono scanzonato da commedia generazionale, serpeggiano umori politici alla Essi vivono e che i due personaggi destinati a incarnare i differenti punti di vista di cui sopra (Pegg e Frost, naturalmente), arrivano a picchiarsi stile Roddy Piper e Keith David, con tanto di prese wrestling così liberatorie rispetto alla fissità delle mani protese da quei “robot” invasori che tanto si adoperano per mantenere invariata l'apparenza e la “formula” del loro piano.

 

La fine del mondoIn fondo, il gioco sta ancora una volta fra il desiderio di preservare il perimetro descritto da un immaginario che si avverte come proprio, e la voglia di far trionfare la verità dei personaggi assecondandone le spinte. Così, se il pub (come già in Shaun of the Dead) resta il territorio prediletto per regolare i conti, la dicotomia si fonda da un lato sul desiderio di Gary/Pegg di riportare indietro le lancette dell'orologio ai tempi di un'adolescenza rimasta l'unica forma di realtà possibile per un personaggio ormai refrattario a ogni possibile sviluppo futuro; dall'altro lato della barricata troviamo invece la voglia di normalità di Andy/Frost, fuggito dagli affetti di un tempo e trinceratosi dietro un lavoro sicuro e una famiglia (apparentemente) felice.

 

In un simile conflitto di universi (letteralmente!) il rispecchiamento non può che stare quindi fra la voglia totalmente irrazionale di Gary di portare a ogni costo a compimento il viaggio fra i dodici pub e la pulsione “normalizzante” (e massificante) degli alieni, che ha la sua brava sponda nel comprensibile desiderio di salvezza (attraverso la fuga) di Andy: sebbene l'elemento fantastico sia (ancora) in primo piano, stavolta Wright evita gli ammiccamenti cinefili – forse perché nel frattempo Pegg e Frost si sono divertiti in tal senso nella parentesi americana di Paul – e affonda le mani nell'umanità e nel senso di inadeguatezza dei personaggi rispetto al (loro) mondo, regalandoci un'opera più cupa, stratificata e matura, dove l'amarsi, il cercarsi, il litigare e il rendersi conto dello sbaglio fatto quando si è abbandonato l'amico non sono subordinati alle logiche narrative, ma diventano squarci di verità autentica nella vicenda “di genere”. Tanto che nei titoli di coda, fra i ringraziamenti, non ci stupisce trovare i nomi di Quentin Tarantino e Guillermo Del Toro: come a dire, la voglia di costruire un universo sì derivativo, ma con all'interno personaggi che rompono gli argini dello stesso, attraverso le storie scritte nel loro passato: per far trionfare il proprio sacrosanto diritto all'imperfezione e al viaggio lungo il percorso che si è intrapreso.

 

 

Titolo originale: The World's End

Regia: Edgar Wright

Interpreti: Simon Pegg, Nick Frost, Paddy Considine, Martin Freeman, Rosamund Pike, Pierce Brosnan

Origine: UK, 2013

Distribuzione: Universal

Durata: 109'

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