Gravity, di Alfonso Cuarón

Un mélo fantascientifico nello spazio che ci toglie davvero a tutti il respiro. Regalandoci un’emozione unica che finalmente ridà; un senso al 3D. 7 Oscar

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Quando abbiamo perduto tutto, quando tutto quel che amiamo ci è stato levato dalla vita, dal destino, cosa ci resta? Sembra un interrogativo da film di Lawrence Kasdan anni ottanta (ricordate Turista per caso?), e invece è la domanda, sotterranea e ridondante, che attraversa tutto Gravity, ultima magia cinematografica di Alfonso Cuarón, forse uno dei più sottovalutati grandi cineasti di questi anni. E la risposta, se c’è, passa attraverso tutti gli elementi fondamentali della vita.

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Ma Alfonso Cuarón non usa la struttura classica per lanciare il suo mélo fantascientifico nello spazio, perché sceglie di aprire con un’infinita “scena madre”, o meglio un’apertura fortissima che diventa scena madre, come se noi conoscessimo i protagonisti della storia e fossimo già a metà film (qualcuno ricorderà la bellissima scena nello spazio tra Connie Nielsen e Tim Robbins in Mission to Mars di De Palma). Un piano sequenza lunghissimo, da lasciare senza fiato, con la mdp di Lubezki che volteggia intorno ai corpi degli astronauti e alla loro navicella nello spazio (poi si potrà discutere di cosa sia oggi un piano sequenza nell’epoca del cinema post-prodotto digitalmente, dove gli effetti possono farci vedere continuità dove invece ci sono stacchi…), dove il pilota Matt Kowalski (George Clooney) e la dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock) stanno facendo una ricognizione tecnica per risistemare l’impianto di comunicazione della nave spaziale. Quand’ecco arrivare subito l’evento catastrofico: una massa di detriti di una stazione spaziale russa distrutta che si muove proprio verso di loro.

Lasciamo all’immaginazione di chi ci legge, e alle prossime visioni in sala (o dove volete…) il resto della storia, cercando di evitare i classici spoiler da Festival. Ma Gravity sembra un film che deve continuamente “ancora iniziare”, dove aspettiamo la “vera storia” che non arriva mai, oppure l’esatto contrario, una storia già raccontata che arriva al punto cruciale, proprio mentre inizia il film…

Cinema fluttuante e di respiro, di corpi galleggianti e sbattuti nel vuoto, di navi spaziali/case provvisorie da conquistare per passare alla prossima, di set sempre più astratti che permettono sfondi fantastici, dove la Terra vista dallo Spazio non è solo un fondale, ma una visione incredibile, continuamente ricercata e richiamata anche dai protagonisti (Kowalski soprattutto), che ci ricolloca in un diverso punto di vista con il quale osservarci, gioco esistenzial/filosofico facile eppure affascinante, dove la nostra vita diviene terra, materica forza gravitazionale, ovvero uno scenario straordinario che da solo sembrerebbe dare un senso alle nostre vite…

Dentro uno spazio/corpo/contenitore, di corpi umani e di macchine, in Gravity si ha come l’impressione di trovarsi dentro “The Great Gig in the Sky” dei Pink Floyd, con una voce straziante, dolorosa e meravigliosa che sembra l’unica alternativa al silenzio che domina il buio “fuori dal mondo”.

E alla fine per Ryan Stone (nome da maschio in un corpo di donna, quasi una palingenesi di un nuovo mondo ermafrodita?) dopo aver cercato l’aria per tutto il film, lottato con il fuoco e con l’acqua, non resterà che tornare, letteralmente, alla terra, strisciando come un rettile, alla ricerca, con calma, magari con un sorriso, di quel ritorno alla posizione eretta, vera rinascita dell’uomo, dove finalmente ogni cosa potrà, forse, ritornare possibile.

Viaggio emozional/esistenziale dentro un genere che dal 2001 kubrickiano è intriso di filosofia e antropologia, Gravity sembra cercare di dare una scossa al “senso di colpa” invisibile che ci portiamo dentro in questi anni “di crisi”, a quell’ansia universale che, troppo spesso, ci toglie davvero a tutti il respiro.

Ma per lottare per la vita servono motivazioni, e per trovarle vanno bene anche quelle che ci arrivano dai sogni. E se la vita non ha più un senso l’unico senso non può che averlo…la vita stessa. Anche se per arrivare a comprenderlo abbiamo bisogno di versare tutte le nostre ultime lacrime… (e Cuarón ci regala una straordinaria lacrima 3D che ci ripaga da anni di inutili e scomode visioni tridimensionali, con quel volto che lentamente si sfoca mentre la lacrima ci viene incontro, e noi lì, pronti ad afferrarla…).

 

Vincitore di 7 Premi Oscar:

-miglior regia (Alfonso Cuarón)

-miglior fotografia (Emmanuel Lubezki)

-miglior montaggio (Alfonso Cuarón e Mark Sanger)

-migliori effetti speciali (Tim Webber, Chris Lawrence, David Shirk, Neil Corbould, Nikki Penny)

-miglior sonoro (Skip Lievsay, Christopher Benstead, Niv Adiri, Chris Munro)

-miglior montaggio sonoro (Glenn Freemantle)

-miglior colonna sonora (Steven Price)

 

Golden Globe per la miglior regia ad Alfonso Cuarón

 

 

Titolo originale: id.
Regia: Alfonso Cuarón
Interpreti: George Clooney, Sandra Bullock, Ed Harris, Eric Michels, Basher Savage
Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia
Durata: 90′
Origine: USA, 2013

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.2
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Il voto dei lettori
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