Jobs, di Joshua Michael Stern

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Il ritratto di Steve Jobs è esattamente quello che ci aspettiamo e, in fondo, abbiamo voglia di vedere: il racconto di un grande personaggio, che sa coniugare la velocità dell’intrattenimento con la cura delle sfumature, moderno e accattivante, ma ossequiosamente rispettoso della struttura prefissata, di atti, punti di svolte, crisi e risalite

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jobsQuesta recensione è scritta su un Mac.

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Ed eccolo qua. L’atteso e obbligatorio biopic su Steve Jobs arriva in Italia, con mesi di ritardo rispetto agli USA, come se ancora appartenessimo a un mercato tecnologico di seconda fascia. Si parte con la mitica presentazione dell’ipod del 2001, momento chiave della storia della Apple (e dell’umanità presente, futuristica) e, poi, si vola indietro, agli anni ’70, quelli del college abbandonato, dei viaggi alla scoperta di sé, delle droghe e delle prime illuminazioni. E poi gli avventurosi azzardi informatici e commerciali che portano alla nascita del marchio, il lancio dell’Apple 2, quello ancor più rivoluzionario del Mac nel 1984, con tanto di sfida lanciata all’IBM. Per arrivare, poi, ai conflitti societari, la “cacciata” di Jobs e il suo ritorno vittorioso. Stop.

L’avventura umana, quella esaltante, quella adatta ad alimentare la vulgata per il grande pubblico, termina qui. Joshua Stern e lo sceneggiatore Matt Whiteley non hanno alcuna voglia di addentrarsi né nei meandri tecnici dell’innovazione né sulle conseguenze dirompenti della trasformazione antropologica che la Apple, in un modo o nell’altro, ha contribuito a determinare. C’è semmai l’intenzione di giocare sullo stesso terreno di The Social Network, su quella connessione inestricabile e spiazzante tra la persona, la sua storia e l’opera. Ma Jobs non è in grado di porsi con la stessa lucidità su quel crinale frastagliato che separa il classicismo tra la contemporaneità, tra la direzione tranquilla della vicenda e l’eco oscuro della nevrosi, di far agire la forma sulle implicazioni umane e morali della storia. Tutte le evoluzioni, involuzioni del personaggio rimangono alla superficie delle trasformazioni estetiche di uno strepitoso Ashton Kutcher. Sono una questione di cambio d’abito.

 

Il fatto è che Joshua Stern non è certo un innovatore al pari di Jobs. Il suo sguardo non è in grado di tentare nessun azzardo rispetto alle tranquille abitudini del biopic, sempre a metà tra la leggenda e la ricostruzione di una complessità psicologica che ne riporti alla superficie le ombre. Ma ancor meno è in grado di allontanarsi dalle linee della sceneggiatura, linee sempre e comunque rette, nonostante gli ovvi buchi e salti temporali. Insomma, Stern non si concede mai istanti di follia visionaria, quelli che, si presume, appartengono al personaggio che sta raccontando. Epperò, il film sembra aver raccolto in un altro senso, determinante, la lezione di Jobs… nella capacità di sapersi accordare perfettamente ai desideri e ai bisogni (artificiali? indotti?) del pubblico consumatore. Il ritratto di Steve Jobs è esattamente quello che ci aspettiamo e, in fondo, abbiamo voglia di vedere: il racconto di un grande personaggio, che sa coniugare la velocità dell’intrattenimento con la cura delle sfumature, moderno e accattivante, ma ossequiosamente rispettoso della struttura prefissata, di atti, punti di svolte, crisi e risalite. Da freak sognatore a glaciale uomo d’industria, tutto il percorso è già pronto e imballato, buono per il consumatore finale, che non ha certo voglia di mettersi a smanettare su una scheda madre nuda e cruda, come giustamente obbiettava Paul Terrell, forse l’unico in grado di influenzare, inconsapevolmente, la visione di Jobs. Resta, però, l’intuizione profonda di un cortocircuito tra la proiezione profetica verso il futuro e l’incapacità di vivere l’istante presente. Cortocircuito del personaggio, che diviene, chiaramente, uno specchio di una maledizione più generale, maledizione dello stesso cinema mainstream che, per rispettare i tempi di consegna, si lascia sfuggire la carne e il sangue dei rapporti (non solo di produzione). E resta la vertigine di un Ashton Kutcher alle prese con un’evoluzione 2.0 sui segni, sempre ben presenti, della sua immagine. L’attore della porta accanto, il nostro amico d’infanzia, sempre alle prese con le sue insicurezze da commedia romantica, diviene uno dei padri affascinanti e mostruosi della contemporaneità. Non riusciamo a crederci, la cosa ci ferisce e ci fa incazzare. Ma, in fondo, ne siamo orgogliosi.

 

Titolo originale: id.

Regia: Joshua Michael Stern

Interpreti: Ashton Kutcher, Dermot Mulroney, Josh Gad, J.K. Simmons, James Woods, Lukas Haas, Matthew Modine

Origine: USA 2013

Distribuzione: M2 Pictures

Durata: 122’

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