IN & OUT – OUT: Jersey Boys, di Clint Eastwood

jersey boysStavolta Eastwood ci mette in crisi. Torna a parlare e a filmare la musica ma il suo sguardo sul dietro le quinte della Storia e dello showbusiness rimane prigioniero di una grammatica cinematografica a cui sembra sottoporsi con scarsa convinzione. Solo a sipario chiuso si prende una rivincita con titoli di coda  Bellissimi, ma prima ci sono due ore "stanche" che girano a vuoto

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È un Eastwood che ci mette in crisi quest’ultimo. Torna a parlare e a filmare la musica: non il jazz di Bird, né il country di Honky Tonk Man o il blues raccontato insieme a Ray Charles in Piano Blues. Qui tocca ai Jersey Boys o meglio a Frankie Valli e i Four Season, gruppo pop che nei primi anni Sessanta scalarono le classifiche americane riempiendo i juke box di mezzo mondo con successi come Sherry, Rag Doll, Big Girls don’t Cry. Canzoni commerciali e melodiche che sono entrate nell’immaginario collettivo di un’epoca e anche nelle colonne sonore di tanti film del cinema americano (Il cacciatore, Un mercoledì da leoni, The wanderers, Sleepers, il recente The Help). I Four Season erano ragazzi del New Jersey messi insieme dallo scapestrato Tommy DeVito, miracolosamente (quasi) scampati al carcere e alla malavita grazie al loro carisma, alla prima voce Frankie Valli e al talento nella scrittura del tastierista Bob Gaudio. Jersey Boys racconta la loro storia dalla formazione del quartetto a fine anni Cinquanta fino alla prima reunion del 1990 dopo la rottura, in occasione della Hall of Fame.

Lo sguardo eastwoodiano sul dietro le quinte della Storia e dello showbusiness rimane prigioniero dentro una grammatica cinematografica tardo-scorsesiana a cui sembra sottoporsi con poca convinzione. La macchina da presa si muove con fluidità inedita nel cinema del grande regista americano, bella a vedersi, abile a ritrarre il sapore e il look di un’epoca, ma affaticata nell’intercettare le dinamiche emotive dei personaggi, raccontati in modo divertito ma meccanico, quasi pigro. Di fronte a certi canoni antropologici del cinema italoamericano di quartiere, Eastwood si affida a
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un tono scanzonato che rischia (volutamente?) il bozzettismo. Racconta la mafia, la musica, la famiglia e l’amicizia come fosse una farsa sfuggita di mano e improvvisamente eretta a Mito dalla storia del cinema. Eastwood si misura con un materiale già vecchio sulla carta, probabilmente non può fare molto e non riesce a trovare la giusta miscela morale a questo Sogno Americano canticchiato, spassoso, ma non privo di lati oscuri (la figlia di Frankie, il matrimonio fallito). È chiaro che dopo quel cupissimo capolavoro incompreso che è stato J. Edgar il nostro avesse bisogno di lavorare a un progetto meno rischioso e più rassicurante – e gli inconsueti tre anni di distanza tra questo e il film precedente suggeriscono una pausa lavorativa più tormentata di quanto lo spirito di Jersey Boys lasci trapelare. Certo non deve aver aiutato la pesante macchina produttiva allestita da Graham King (non a caso produttore dell’ultimo Scorsese, tranne The Wolf of Wall Street) e dal duo Valli-Gaudio (nei confronti dei quali la sceneggiatura è estremamente indulgente), impeccabile nel garantire la confezione ma difficilmente scardinabile nella sua scrittura claustrofobica, con i personaggi che raccontano tutto guardando in macchina scambiandosi il ruolo di voce narrante in una polifonia un po’ prevedibile, più vicina al teatro che alla jam session.

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Il punto sostanzialmente è questo: bisognerebbe capire quanto sia ormai difficile per certi “vecchi” registi cresciuti in una determinata Hollywood continuare a vivere e lavorare dentro questa Hollywood, che paradossalmente non mette i bastoni tra le ruote ai grandi nomi, ma anzi ne pretende apertamente la maestria riconosciuta, immobilizzandone il talento nel tentativo di venderlo con oggetti filmici costosi che non devono scontentare nessuno. Ora. Negli ultimi film Clint Eastwood – che come Scorsese, Malick, Spielberg e Woody Allen ormai deve confrontarsi con la sempre pericolosa unanimità critica e accademica – ha brillantemente condotto una resistenza teorica e autoriale dietro a progetti solo in apparenza hollywoodiani ma tutt’altro che convenzionali. Changeling, Invictus, Hereafter, J. Edgar sono opere straordinariamente personali, preziosissime proprio perché camuffate da una parvenza industriale da cinema di genere (il thriller, lo sport, il fantasy, il film storico). Qui è toccato al musical graffiti e ha perso la sua prima battaglia, lasciando intuire un disagio che speriamo sia solo occasionale. Ha però voluto lasciarci un messaggio alla fine del film. A sipario chiuso, Eastwood si prende la sua rivincita nei confronti dell’operazione con dei titoli di coda bellissimi. La rappresentazione assume le fattezze di un ballo alla Busby Berkeley con i passionali cromatismi in technicolor di un Nicholas Ray. In due, tre minuti di Cinema si liberano musica e traiettorie per svelare il meccanismo del set e sospendere il tempo. Un’ebbrezza estatica fuori da tutto. Meravigliosi. Quasi sufficienti a convincerti di non aver visto l’Eastwood meno riuscito di sempre.

Titolo originale: id.

Regia: Clint Eastwood
Interpreti: Christopher Walken, Francesca Eastwood, Freya Tingley, Ashley Leilani, Vincent Piazza
Origine: USA 2014
Distribuzione: Warner Bros.
Durata: 134'

 

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