AMERICAN SNIPER – Cielo di piombo


In quello stadio dove si onora la memoria ripulita e santificata del killer rinasce ancora una volta la frontiera: e non avrebbe senso scrivere o ragionare di null'altro, se non di fuoco amico, di nemico interno. Ma c'è chi reagisce ad American Sniper come se fossimo sugli spalti. E allora facciamo il tifo, da qui ai prossimi giorni, su queste pagine, con un nuovo, necessario Speciale

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L'immagine parla sempre da sé, e quella eastwoodiana è una delle più limpide, pulite e precise che ci si possa ritrovare davanti agli occhi. Decidere di far iniziare un film con il protagonista che ammazza freddamente un bambino, dunque quest'uomo diventa una Leggenda e così viene ribattezzato da tutti, e sui titoli di coda viene salutato da un'intera Nazione con il suo funerale in uno stadio gremitissimo, non avrebbe bisogno di ulteriori parole per ribadirne la chiarezza della lettura. Eppure appare urgente, a leggere malauguratamente “il dibattito critico”, la necessità di prendere posizione, o almeno di non mollarla, come per l'appunto fa Kyle che dalla sua postazione non s'allontana neanche per i bisogni fisiologici.

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A seguire, resistendo alla tentazione dell'interpretazione, la sequela di presentimenti che colpiscono Kyle nei suoi giorni di licenza a casa (il cane e l'automobile e l'infermiera e lo schermo spento della tv), diventa altrettanto palese alla fine che non si tratti di paranoie quanto di premonizioni poi abissalmente avveratesi, nell'arco irrevocabile di una dissolvenza in nero.

Sul serio, non avrebbe senso scrivere o ragionare di null'altro, se non di fuoco amico, di nemico interno
(come il ladro nascosto nella cassaforte che assiste al delitto del Presidente, in Potere Assoluto, o la Magnum Force).
Fingere di non conoscere Firefox o Gunny o La recluta e di ricordarsi solo di Gran Torino e Mystic River (nemmeno de Gli Spietati in cui già si stagliava una sequenza sublime di pietà nel mirino) equivale a non riconoscere John Ford nell'entrata in scena di Bradley Cooper, ombra di spalle alla porta di casa che “apre” lo schermo in verticale.
Ma viviamo in tempi in cui ci si dimentica di guardare le immagini, nelle maglie tra le quali scivola e sgattaiola (invano, invano) il fantasmatico Mustafa, unico segno esagitato di cinema (come la letale rivale Billie di Million Dollar Baby) con la sua invincibilità oscura da super-antagonista, di un impianto che non va mai in ebollizione, neppure nelle sequenze di cameratismo adrenalinico (il ritorno assetato di vendetta sul luogo dell'imboscata al compagno caduto, la tempesta di sabbia finale), in cui immagineresti il crescendo travolgente dell'apparato.
Più che affrontare gli stilemi digitali dell'Iraqi movie, Eastwood li annulla riportando tutto a casa, al più arcaico degli immaginari western, la banda il duello l'agguato l'assedio al fortino (più di Bigelow De Palma Scott ecc aveva un'intuizione simile il Peter Berg del sottovalutatissimo Lone Survivor).

Impiccalo più in alto: in quello stadio dove si onora la memoria ripulita e santificata del killer rinasce ancora una volta lalettera frontiera, e mi pare una notazione così banale da dover sottolineare, anche perché l'immagine è “di repertorio”, televisiva. Basterebbe porre l'attenzione all'analogia tra il mascherino classico dell'immagine-mirino adottato da Eastwood, che annerisce tutto ciò che non è un target, e la distanza annullata del footage per l'appunto in tv, l'attacco alle Torri, i video di Mustafa, di nuovo la sfilata di bandiere degli end credits. Lo schermo si svuota e restano solo i suoni di guerra negli occhi di Kyle.

Al Paese che eseguiva le impiccagioni in piazza davanti alla popolazione tutta e poi vendeva cartoline che immortalavano l'istante del collo spezzato (Fino a prova contraria…), Eastwood regala da sempre emblematiche quanto potentissime immagini di stadi, a partire da quello, vuoto, in cui finalmente Harry Callahan ha la meglio su Scorpio.
Per arrivare allo stadio-tomba dell'American Sniper bisogna passare almeno da quello in cui i reduci replicano a oltranza la messinscena dell'ennesima immagine falsata della Storia d'America, in Flags of Our Fathers, e da quello hustoniano della partita a rugby con il Mito, di Invictus (ma altri, reali o figurati, se ne potrebbero elencare, da Nel centro del mirino al recente Di nuovo in gioco…).

E' probabile che di questo filo rosso (qui non si fa distinzione tra le pellicole dirette prodotte e quelle "solo" interpretate, ché in Clint non ve ne è motivo) l'immagine più potente rimanga il linciaggio notturno sulla main street che ritorna come incubo al protagonista della seconda regia eastwoodiana, Lo straniero senza nome: tutto questo, siamo sicuri, è chiaro a chi reagisce ad American Sniper come se fossimo sugli spalti. E allora facciamo il tifo, da qui ai prossimi giorni, su queste pagine, con un nuovo, obbligatorio Speciale. 
L'ennesimo su Clint, nella storia di Sentieri Selvaggi
Aver fatto ricominciare la partita che Eastwood va giocando da 45 anni (davvero a rileggere l'oramai celebre lettera a Andrew Sarris del 1977 la sensazione è che sia stata scritta oggi) è l'ennesima dimostrazione della forza di un cineasta tra i più magnificamente coerenti e ineffabili nel discorso portato avanti, in una filmografia tra le più alte dell'intero secolo.

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