Lettere di uno sconosciuto, di Zhang Yimou


Zhang Yimou ha perso (ormai del tutto?) quella insinuante carnalità e potenza espressiva che lo animava negli anni ’90. Questo è un film che ha diversi pregi, ma che perde pian piano il miracolo dei piccoli gesti, degli sguardi, delle esitazioni, diventati una stanca coloritura per un incedere narrativo pressoché perfetto e alla lunga innocuo

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Eccoci al “tornando a casa” di Zhang Yimou. Soggetto classico, da narrativa popolare, sfruttato da molte cinematografie e in diverse accezioni, per la sua indubbia potenza archetipica: un uomo (un professore e un intellettuale evidentemente scomodo) torna a casa dopo anni di lavori forzati e ha difficoltà a farsi riconoscere dalla moglie malata – interpretata dalla musa di sempre di Yimou, Gong Li, in un’interpretazione tutta in sottrazione e molto intensa nel disegnare una bellezza sfiorita dalla Storia – che attende ancora e imperterrita il giovane marito lasciato anni prima. Ogni 5 del mese si reca speranzosa al traghetto che dovrebbe riportarlo a casa e non ne vuole proprio sapere di riconoscere quel vecchio uomo che ora dice di essere lui. A inizio film, però, abbiamo assistito al precedente tentativo di evasione dell’uomo e alla sua tragica cattura sotto gli occhi della moglie e della giovane figlia che, fedele al partito, lo ha denunciato e fatto condannare. Queste sono le premesse.

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Ora: l’intento di ridiscutere i traumi della Rivoluzione Culturale e di fare i conti con il complesso passato della Repubblica Popolare è sin troppo manifesto. E in fondo questa è una propensione tipica dei cineasti della Quinta Generazione (pensiamo a Chen Kaige), l’ammantare di seducente spettacolo gli spettri lontani e vicini di un Paese. Ed è anche lodevole il fatto che il grande cineasta cinese sia tornato a concepire film più semplici e intimi, scevri da quel fortissimo apparato formale e formalista che aveva animato e un po’ castrato il suo ultimo decennio. Le prime sequenze, di indubbia efficacia, configurano solo una silenziosa ricerca di complicità per sentimenti diventati clandestini, con il silenzio infranto all’improvviso dalla denuncia della figlia che spezza i legami familiari e crea un trauma irreversibile nella madre. Il resto del film sarà il lentissimo tentativo dell’ormai “redento” marito, uscito di prigione dopo tre anni, di farsi ri-conoscere e amare, con il dramma sociale e il trauma collettivo totalmente scomparsi dall’orizzonte e relegati (come sempre) a celata metafora.

È sinceramente difficile non notare come il cinema di Yimou abbia perso (ormai del tutto?) quella insinuante carnalità e potenza espressiva che lo animava negli anni ’90. Questo film perde pian piano il miracolo dei piccoli gesti, degli sguardi, delle esitazioni (ricordate Lanterne Rosse?) che diventano una stanca coloritura per un incedere narrativo pressoché perfetto. Ecco allora: anche quest’ultimo film appare sin troppo studiato per poter veramente emozionare, poco ambizioso nel suo ostinato rimanere dentro i canoni e mai abbastanza visionario per poterci fornire squarci di riflessione sulla Storia latente. Un cinema diventato improvvisamente innocuo.

Titolo originale: Gui Lai (Coming Home)
Regia: Zhang Yimou
Interpreti: Gong Li, Chen Daoming
Origine: Cina, 2014
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 111'

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