(unknown pleasures) "Machine Gun Preacher", di Marc Forster

machine gun preacher
Il Childers di Butler funziona forse proprio in quanto troppo umano e troppo finto, ginnastica facciale virata allo scatto ringhioso, come una smorfia permanente, indocile presenza, figura (ri)costruita più che un vero e proprio personaggio. Perché, alla fine, Machine Gun Preacher sa essere davvero un film su Sam che salvò i bambini combattendo i cattivi

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Il realismo inquieto di Monster’s Ball – L’ombra della vita e alcune intelligenti soluzioni dell’incostante Vero come la finzione, la retorica insopportabile de Il cacciatore di aquiloni, l’irritante e vacuo Stay – Nel labirinto della mente e, ancora, Neverland – Un sogno per la vita, fra la magia dell’immaginazione e un andamento a tratti stucchevole… È un caso strano, o forse una perenne, grande occasione sprecata, il cinema discontinuo di Marc Forster: talento e mestiere consolidati ma spesso, purtroppo, a corto di personalità, non in grado di andare oltre il puro “servizio”, di superare gli schemi di mera realizzazione, di messa in scena nell’accezione più essenziale, anche al di là della pochezza o della validità degli script altrui portati sullo schermo. Un corpus, nel complesso, poco o per niente identitario, più confuso che davvero versatile, tuttavia non privo di interessi pur nei suoi vistosi limiti.
E Machine Gun Preacher, in questo insieme, rappresenta una creatura particolare e pressoché insolita, per quanto controversa. Viene dopo Quantum of Solace e prima di World War Z. Sta in una sorta di terra di mezzo, come una (curiosa) parentesi, come collocato al posto più giusto e in un certo senso naturale. Si situa, ovvero, fra la migliore regia di Forster – con uno 007 più introspettivo e oscuro, sulla scia di Casino Royale di Martin Campbell – e il suo film politicamente, pericolosamente, più ambiguo, horror pandemico dalla lavorazione tormentata e scadente nell’esito, senza cuore (ma qui ci può stare, non è certo una priorità) né testa (e questo è grave), assai lontano, per intenderci, dalla consapevolezza di un Contagion soderberghiano.

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La storia è quella di Sam Childers, personaggio realmente esistente (interpretato da Gerard Butler), ex criminale tossicodipendente della Pennsylvania con moglie (Michelle Monaghan) e figlia, trasformatosi, negli anni Novanta, in lavoratore serio e fervente cristiano, tanto da decidere di partire per una breve incursione in una fetta di Africa dilaniata dalla guerra civile, fra Uganda settentrionale e Sudan meridionale, nella speranza di apportare un minimo d’aiuto a sfollati e vittime. I massacri perpetuati delle milizie capeggiate da Joseph Kony ai danni della popolazione inerme, però, lo indurranno a voler fare di più, anche a costo di trascurare la famiglia, fino a salvare e ad assistere centinaia di bambini e a contrastare il nemico con le armi…
Un biopic, storia vera eppure perfettamente “americana”, di quelle, cioè, Bigger Than Life, al contempo, però, Stranger Than Fiction (che è il titolo originale di Vero come la finzione), edificante ma non troppo, tema muscolare a svolgimento semi-pauperistico, oggetto stridente, strana convivenza di dramma e azione, redenzione e violenza, individualismo a stelle e strisce e controllata inclinazione al mood epico. Regia pragmatica e funzionale, stile assoggettato alla sostanza, fra un’America provinciale e cristiana dal volto umano – distante da quella orrenda e ridicola setacciata da Larry Charles nei film su misura per Sacha Baron Cohen e Bill Maher – e un’Africa di sole e notturna con i suoi conflitti, pensata e modulata per certi versi su convenzioni e stilemi di racconto western. Perché Childers, in realtà, è molto più preacher, predicatore, in patria che in terra d’altri.

Insomma − dopo Daniel Craig e l’“umanizzazione del mito” James Bond, prima del piatto eroe americano interpretato da Brad Pitt, marito e padre perfetto, alle prese con gli zombie che infestano il pianeta −, ecco l’hero ordinario e “bifolco” di Gerard Butler, controverso, irrisolto in partenza e anche dopo, perché, come scrive Kirk Honeycutt su «The Hollywood Reporter», “The film doesn't explore all those ‘whys’ and ‘whats’”. Ridotte allo stretto indispensabile le motivazioni (anche psicologiche) e le connessioni narrative, scarnificate le coordinate storico-politiche. Eppure il film resta lì, rimane autonomo, si basta, probabilmente perché altro non vuole e non può essere. Il Childers di Butler funziona forse proprio in quanto troppo umano e troppo finto, ginnastica facciale virata allo scatto ringhioso, come una smorfia permanente, indocile presenza, figura (ri)costruita più che un vero e proprio personaggio, acting in messa in forma di un corpo (ricordate lo stesso corpo, ma diverso, e in chroma key, in quella cosa lontanissima dalla pellicola di Forster che è 300 di Zack Snyder?). Qui c’è tutto. Perché, alla fine, Machine Gun Preacher sa essere davvero un film su Sam che salvò (e continua a salvare) i bambini combattendo i cattivi.

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