TORINO 30 – Kibou no Kuni (The Land of Hope), di Sion Sono (Rapporto confidenziale)
Un devastante western dei tempi presenti girato da un terrorista pazzo d'amore capace di ambientare un postapocalittico in un antico dipinto di Hokusai, senza nemmeno più bisogno di versare il sangue e mostrarti il coltello per spaccarti il cuore. L'unica eternità possibile, per Sion Sono, è quell'umanità che non solo sopravvive al caos, ma di caos si nutre. The Land of Hope è un film prezioso, almeno quanto imbattersi nelle lacrime di uno sconosciuto che non si commuove facilmente
Dopo la speranza nella disperazione di Himizu, la disperazione nella speranza di The Land of Hope. Un villaggio rurale abitato da due famiglie, che parlano con gli animali conoscendo bene la propria bestialità, parlano con i fiori conoscendo la grazia. In un futuro troppo vicino, il terremoto e lo tsunami. Nessun effetto speciale: solo un breve tremito infernale e il buio. Seguono la minaccia nucleare e l'evacuazione: l'autorità getta acqua sul fuoco e raccomanda di sorridere, evadere, distrarsi, ma intanto le forze militari irrompono senza spiegazioni, portano via i Suzuki, cercando poi di convincerne anche gli Ono, dall'altro lato del nastro giallo, a lasciare la casa di generazioni. Yasuhiko (un sublime Isao Natsuyagi) ex cowboy, vecchio patriarca che tutto sa, protesta per un poco, poi siede immobile, con la dignità di chi non cederà di un passo. Spedisce in città il figlio Yoichi (Jun Murakami) che si attacca alle sue gambe come un cucciolo, e la giovane nuora incinta, Izumi (Megumi Kagurakaza). Li mette in salvo con la durezza di chi sa che ogni esitazione è sofferenza in più, ma non intende abbandonare la sua fattoria, e non "per qualche motivo romantico", ma per la sopravvivenza stessa. Soprattutto, per non turbare la moglie amatissima, Chieko (Naoko Otani). La malattia l'ha trasformata in una ragazzina svanita, assorta nel disegno e nella cura dei fiori, che dimentica se stessa e tutto il resto ogni secondo, dotata però di una strana saggezza infantile, di una fede incrollabile in Yasuhiko. L'amore di lui verso la moglie tornata bambina è una roccia gentile bagnata di lacrime, capace di ballare, mangiare, ridere a gola aperta. Ad ogni sguardo, nella crudele fragilità della memoria di Chieko, è come se si riamassero da capo.
La follia questa volta entra in gioco gradualmente, rivelando la sua doppia natura di paranoia e di verità: il battito del cuore di Izumi, allarmata da una donna in preda alla paura, è una sorda partitura di catastrofe. Le radiazioni sono anche in città, occorre indossare protezioni, sigillare la casa, vivere in una tuta a prova d'aria, oppure il bambino nascerà spacciato. Radiofobia? Forse. L' autorità, con la bocca maliarda della televisione, sprona a sorridere, evadere, dimenticare. Dopo un mese si dimentica tutto, è vero. Eppure i piccoli contatori Geiger, piccola tecnologia amatoriale alla quale in fondo non si crede (come alle app) dicono che l'atmosfera è tossica, ovunque. Soprattutto dove sembra più eterea, dove si muove il mare.Yoichi finisce per condividere la follia della moglie, come suo padre la dolce assenza della vecchia compagna, perchè infine la follia è il bene: è la manipolazione che è il male. Sorridete, divertitevi, dimenticate.
Quelle schegge di caos, il turbamento perverso e sensuale delle opere precedenti di Sion Sono, la psicosi, la paura, quel veleno penetrante che fa il suo cinema, non sono andate perse. Riaffiorano in brevi momenti: Izumi casalinga spaziale che al supermercato affonda uno strumento negli ortaggi per controllarne la radioattività, In un lampo, uno di questi momenti – Chieko che fugge vestita a festa, con la fuga veloce dell'Alzheimer, corre a giocare in un deserto di morte, un incubo mistico di vacche sacre indiane al centro di una strada; Yasuhiko che la cerca dappertutto – si trasforma in un ballo di complice tenerezza tra i due vecchi amanti, lui forte abbastanza da portarla in spalla nella neve, in una stampa incantata di Hokusai.
The Land of Hope è la Straight Story di Sion Sono: come Lynch ha saputo farsi piccolo e grandissimo facendo a meno di dipendere dalle visioni, così lui fa a meno del sangue versato. Non ha bisogno più nemmeno del sangue, nè di mostrarti il coltello, per spaccarti il cuore! E la violenza del suo cinema, stavolta la concentra tutta alla fine: in un ultimo sacrificio compassionevole di bestie, in un ultimo devastante singhiozzo di amore ultraterreno, dove Yasuhiko come in un western, capace di sedere al tavolo con i suoi nemici senza cedere, e raccontare barzellette (l'anello di fidanzamento finito in un pozzo nero), vecchio armato di fucile che libera un cane dalla catena, guarda le bestie negli occhi, perchè nessuno le massacri al posto suo. Yasuhiko che adora la nuca di Chieko.