TORINO 30 – “11/25 The Day Mishima Chose His Own Fate”, di Koji Wakamatsu (Torino XXX)


Nel fat
o di Mishima Wakamatsu riconosce, oltre la distanza, oltre la posizione, l’essenziale della vita: la velocità dell’immobile, il suo condensarsi in un’istantanea, in un gesto di rivolta e bellezza, nell’evanescenza di un haiku, nel sublime tormento di un seppuku inciso nella carne, nel fiotto di sangue che sgorga dal ventre e dal collo. Nulla è cambiato. Ma ci saranno sempre due mani aperte a raccogliere il testimone di questo magnifico nulla

 

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mishimaQuesto penultimo film diretto dal grande Koji Wakamatsu continua a percorrere la storia del Giappone, da sinistra a destra. United Red Army e 11/25 The Day Mishima Chose His Own Fate sono davvero lo stesso film, due facce di un'unica medaglia, il fallimento di una generazione che manca l’appuntamento con il destino. Un’epoca vista da lati opposti. Da una parte il racconto bruciante del fallimento della contestazione studentesca al finire degli anni ’60. Dall’altra la parabola solitaria di Yukio Mishima, scrittore di fama mondiale, e della sua Società degli Scudi, associazione paramilitare, fondata nel 1968 per porre un argine alla violenza montante da sinistra e per propugnare una riforma costituzionale che riaffermasse la divinità imperiale e l’inalienabile sovranità del Giappone sul proprio esercito.

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Lì come qui si parte da un percorso, da un susseguirsi di avvenimenti in un continuo dialogo di materiali di repertorio e ricostruzioni: l’assassinio nel 1960 del presidente del partito socialista, la vicenda di Kwon Hyi-Ro, figlio d’immigrati coreani che, nel 1968, prende in ostaggio 18 persone per protestare contro i trattamenti discriminatori del Giappone nei confronti dei coreani, gli scontri tra manifestati di estrema sinistra e polizia all’Università di Tokyo nel 1969. Ma il percorso slitta, impatta, si spegne in un vortice di autodistruzione. Stop.

Gli studenti della United Red Army si rinchiudono nell’assurdo macello dei campi di addestramento, dove autoannientarsi nell’autocritica. Così il destino di Mishima e dei suoi adepti si gioca nello spazio chiuso di un salotto schiacciato dall’alto, di una sauna asfissiante. E lo sguardo di Wakamatsu ne registra l’impasse, l’impossibilità d’incidere nel presente a dispetto dei piani, dei progetti, della voglia di agire. Azione è la parola d’ordine. E nel momento in cui l’azione (il film?) prende il via, dopo tentennamenti, ripensamenti, rinvii, si riduce a una messinscena solitaria, dove gli altri o sono inutili comparse o sono fuoricampo. Fino all’agghiacciante solitudine del discorso di Mishima, un monologo dove il resto, le truppe, il Paese, la Storia sono oltre l'immagine, un rumore di fondo indistinto. Alla fine del tunnel, allora, non c’è che la morte, la presa d’atto definitiva di questa barriera insuperabile tra sé e gli altri, tra l’uomo e il tempo, tra la fissazione immobile dell’ideale e l’inafferrabilità del contingente.

 

mishimaLa Storia, in Wakamatsu, è una realtà impossibile. Perché ogni evento è solo un incidente, cioè un’incisione, un taglio praticato nelle carni del tempo, una soluzione di continuità che non manda avanti i percorsi, ma li arresta, li riazzera, per farli ripartire da capo. Perciò il suo cinema è crudele. Perché è lo sguardo che opera questo taglio e lo fa nel cancro stesso dell’illusione, nel punto esatto di frizione tra l’immagine e il reale, tra il possibile e l’impossibile, tra il giusto e il folle, l’amore e l’orrore.

 

La Storia non è un vettore direzionale, ma una spirale stretta al fondo, il vortice di fuoco di un presente sempre acceso, eppur costretto ad agitarsi nella dissennatezza di un movimento apparente, come un gas esplosivo destinato a disperdersi. E allora per Wakamatsu il cinema è immobile, è l’ossessione di un caterpillar fuori uso, di un corpo senza braccia e gambe, incatenato a una furia montante, eppur impotente, di rabbie distruttive, disillusioni brucianti, amori incontrollati."Ho fatto cinema perché volevo uccidere un poliziotto", confessa a Barraud questo yakuza fuori tempo. Ma la sua rabbia è oltre il moto di rivoluzione. Va oltre l’action, per ricomporsi nell’estasi degli angeli, nella seconda verginità di un sentimento, nella fratellanza malinconica di una canzone, in un bushido eterno. Nel fato di Mishima Wakamatsu riconosce, oltre la distanza, oltre la posizione, l’essenziale della vita: la velocità dell’immobile appunto, il suo condensarsi in un’istantanea, in un gesto di rivolta e bellezza, nell’evanescenza di un haiku, nel sublime tormento di un seppuku inciso nella carne, nel fiotto di sangue che sgorga dal ventre e dal collo. Nulla è cambiato. Ma ci saranno sempre due mani aperte a raccogliere il testimone di questo magnifico nulla.

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