TORINO 30 – "Maniac", di Franck Khalfoun (Rapporto confidenziale)

Elijah Wood in MANIAC, di Franck Khalfoun - Torino Film Festival 2012

In maniera del tutto inaspettata, il remake di Maniac si dimostra un saggio visivo sull'incomunicabilità dei corpi, reso ancora più grande dalla scelta di un viso giovane e piacente come quello di Elijah Wood: in questo modo, il disagio del suo protagonista assume connotazioni insperate, trasportando lo spettatore in un incubo nel quale è impossibile non identificarsi. Quasi un film in 3D, senza bisogno di occhialini: un horror bello e importante

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Elijah Wood in MANIAC, di Franck Khalfoun - Torino Film Festival 2012Le premesse, c’è da ammetterlo, non sembravano delle migliori: c’era davvero bisogno di un remake di Maniac, piccolo gioiello dell’horror americano anni Ottanta? Quel piccolo film profondamente disturbante, frutto della collaborazione tra il regista William Lustig e lo sfortunato attore/sceneggiatore Joe Spinell (noto ai più per piccoli ruoli nelle saghe di Rocky e Il padrino), è ancora oggi talmente significativo di un certo cinema sporco e senza compromessi, tipico di un’epoca che non tornerà più, che era praticamente impossibile non storcere la bocca alla notizia di un rifacimento; la scelta di Elijah Wood nei panni del laido protagonista, poi, sembrava davvero la ciliegina sulla torta. E invece: mai tali (basse) aspettative furono disattese in maniera più sorprendente di così. Perché, è bene dirlo subito, questo Maniac 2012 non è solamente una delle più grandi sorprese horror dell’anno, e non è solamente uno dei pochissimi rifacimenti davvero degni di nota: è addirittura comparabile al film originale di William Lustig, rimanendone fedele nello spirito pur aggiornandolo ai tempi.

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La vicenda, come nel film del 1980, è ridotta ai minimi termini: Frank Zito è un uomo solitario e triste, ossessionato dal ricordo della madre, che trova una valvola di sfogo uccidendo giovani donne e tagliando loro lo scalpo. Fino all’arrivo di una bella fotografa che… Da un punto di vista narrativo, lo script di Alexandre Aja e Grégory Levasseur segue abbastanza fedelmente il prototipo, ma è nella messa in scena di Franck Khalfoun che risiede lo scarto più significativo: la scelta di girare tutto il film in soggettiva, seguendo costantemente il punto di vista del protagonista, rende Maniac una pellicola intrinsecamente tridimensionale, senza il bisogno di indossare occhialini di sorta. In questo modo, l’identificazione dello spettatore è pressoché totale, smarrito in una profondità di campo sporchissima e truculenta: Maniac (anzi: Maniac 3D) è un incubo reso tale dallo splendido lavoro di Maxime Alexandre sulla fotografia, che tinge le strade di Los Angeles (nel 1980 il teatro era invece New York) di toni cupi e lividi. Il mondo di Frank Zito – che vediamo riflesso sugli specchi, sulle vetrine, su qualsiasi superficie lucida – è una dimensione condannata alla solitudine e alla disperazione, dove qualsiasi speranza di relazionarsi con l’altro sesso è destinata al fallimento: da qui, la grandezza della scelta di un volto giovanile, bello e piacente come quello di Elijah Wood, che rende il suo personaggio incredibilmente più vicino a noi, perché il suo disagio ci riguarda tutti. E noi siamo là, in quelle strade e in quelle case, con lui; o meglio, noi siamo lui.

 

“Mi aMANIAC, di Franck Khalfoun - Torino Film Festival 2012spettavo che fossi vecchio, grasso e con i capelli unti” (è la descrizione esatta di Joe Spinell nell’originale), gli dice una ragazza al primo appuntamento, prima di essere massacrata sulle note di Goodbye Horses di Q Lazzarus: Maniac (3D) è un saggio visivo sull’incomunicabilità dei corpi, prima ancora che delle persone; un Orrore reso ancora più grande dalla normalità fisica del protagonista, potenzialmente di successo, che spalanca in questo modo abissi di solitudine ancora più incolmabili. L’amore è sogno e chimera, inseguito fino alle estreme conseguenze da un esercito di manichini senza anima e personalità: ecco in cosa risiede maggiormente il lavoro di adattamento effettuato da Aja e Khalfoun, che trasportano violentemente il film di Lustig nell’era contemporanea di internet e degli incontri in chat, dove tutti siamo Elijah Wood ma nessuno riesce ad assaggiare un briciolo di felicità. Un film inaspettatamente bello e importante, che non lesina sul gore ma che allo stesso tempo preferisce lavorare sul linguaggio e la dialettica insita nel genere: e quando il punto di vista della macchina da presa esce dal protagonista ed arriva a inglobarlo nell’inquadratura, la dimensione allucinatoria del film raggiunge il suo apice. Senza se e senza ma, l’horror migliore dell’anno.

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