TORINO 30 – “Joseph Losey” (Retrospettiva) seconda parte


Un cinema, quello di Losey, sottilmente perverso, insinuante, che con occhio spietato ha indagato sulle umane debolezze, ricercando, nel tempo, sempre nuove e originali prospettive di indagine. Un lavoro che ha operato sulla memoria, sul difficile rapporto tra le classi, che ha smarrito la strada quando ha insistito sul piano del racconto, trascurando l’animo dei suoi protagonisti. Un cinema che ha sempre privilegiato il rapporto con il teatro servendosi di ogni forma espressiva che gli appartenesse.

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Messaggero d'amoreIl cinema che a Losey è più congeniale è quello che si gioca dentro le emozioni e le passioni che accompagnano i personaggi. È per questa ragione che quello stesso cinema meno riesce ad esprimere la sua forza espressiva quando schiaccia esclusivamente il pedale del racconto, senza una particolare attenzione ai rapporti tra i personaggi, come accade nel mediocre L’assassinio di Trotsky del 1972 nel quale, perfino la sensibile Romy Schneider, viene trascinata dentro una recitazione eccessiva e sopra le righe, perfetto contraltare per un Alain Delon tutto fintamente concentrato, tutto teso a dimostrare il tormento del sicario.


Joseph Losey è stato comunque un grande narratore e non soltanto di sentimenti, pur avendo subordinato quasi sempre i fatti al peso decisivo delle emozioni e delle passioni che si giocano sul filo della memoria.

È il caso di Messaggero d’amore del 1971 che è forse uno dei film per i quali il regista americano è più conosciuto e già Palma d’oro al festival di Cannes. Si tratta di un’opera, nata dalla collaborazione con Harold Pinter, che denuncia tutta la poetica loseyana perché lavora su diversi piani narrativi e molteplici significazioni. C’è sicuramente il piano del puro racconto che pone in evidenza le differenze di classe sociale tra i protagonisti che vivono la controversa storia d’amore a cavallo tra l’ottocento e il novecento; c’è il piano sentimentale che lega i personaggi principali, ma anche i sentimenti collaterali tra il bambino, poi uomo latore dei messaggi tra i due innamorati, e i due fidanzati e reciprocamente tra loro, in una rete fitta di rapporti che abbraccia tutto il film irretendo lo spettatore in questo reticolo di emozioni; c’è il piano della memoria, che funziona come essenziale dispositivo narrativo, come elemento propulsore del racconto.

Mr. KleinÈ proprio la memoria, come istinto essenziale di rinascita, a spingere il vero protagonista del film, a sottomettersi, ancora una volta, al volere della donna, ormai anziana, che gli chiede di consegnare un ultimo messaggio. Un film che servendosi del flash back sembra volere raccontare la storia dei due amanti segreti, ma, in realtà il centro focale della vicenda è il piccolo messaggero che ritroveremo uomo dopo molti anni. Il segreto e personale innamoramento infantile funziona ancora e l’uomo adulto riconosce in se i segni di questa subordinazione e, silenziosamente ed orgogliosamente, obbedisce.  Da questa complessa articolazione di elementi compositivi, sapientemente integrati e misurati nella loro efficacia, nasce la perfetta alchimia che fa di questo film quello forse più paradigmatico della filmografia dell’autore, quello che meglio condensa i punti cardinali della sua poetica.

Se Messaggero d’amore è una storia in cui Losey lega molteplici elementi che lo affascinano, Mr. Klein, film del 1976, costituisce un altro punto d’arrivo del suo cinema fatto di ricerca nella coscienza individuale. La vicenda è ambientata durante il periodo dell’occupazione nazista della Francia e qui, ancora una volta, ritroviamo Alain Delon soggiogato dall’incubo dell’omonimia. Un film sulla perdita dell’identità e sulla obbligatoria follia che accompagna il protagonista e che nasce dalla acquisita consapevolezza di questa perdita.

Due opere di Losey richiamano esplicitamente l’impianto teatrale da cui prendono origine. La prima è Galileo del 1974 e l’altra è Don Giovanni del 1980.

GalileoIl progetto di un Galileo tratto da Brecht fu accarezzato per lunghi anni da Losey e la sua idea di messa in scena prevedeva la presenza di Charles Laughton nei panni dello scienziato pisano. Il progetto è stato realizzato, ma il suo Galileo fu interpretato dall’israeliano Topol. La struttura teatrale del film non appesantisce mai il suo scorrere, merito di un copione efficace e di una grande qualità del cast in cui si riconoscono, tra gli altri, Michael Lonsdale e un giovane Tom Conti. Il film, che superficialmente racconta le vicende che coinvolsero il grande scienziato alle prese con l’inquisizione, è in effetti un grande saggio sulla libertà del pensiero e Galileo resta vittima della paura della libertà ed è per questa ragione che il suo personaggio, durante lo scorrere della storia, perde quello splendore dialettico con cui il film si apre. D’altra parte è Brecht che crea la struttura concettuale e Losey non può che aderire a questo pensiero che d’altra parte lo riguardava personalmente essendo egli stato vittima di una forma, sebbene moderna, ma non meno cattiva di inquisizione e costretto, non all’abiura galileiana, ma prima a lavorare sotto falsi nomi e poi all’espatrio per garantirsi la libertà del pensiero.

Don Giovanni del 1980 riprende l’opera di Mozart costruendo una sontuosa ed evocativa messa in scena che viaggia all’interno di luoghi che raccontano, già di per se la magia. Il film è infatti ambientato tra le ville palladiane del vicentino, il Teatro Olimpico, vero e proprio gioiello architettonico di quella città e la Venezia di Murano. Un film che ricompone, ove mai ci fu, il dissidio tra cinema e teatro, un lavoro che non è solo di ambientazione magica e surreale, ma puntiglioso e insostituibile sulla recitazione e sul cantato. Un film che risplende di luce propria consacrando il genio musicale di Mozart e l’arte di Losey che traduce con il cinema la potenza e il fascino del grande seduttore. Don GiovanniUn film che è tutto nelle corde del regista e in cui si ritrovano alcuni temi della sua poetica. Primo fra tutti quello del vincolo di subordinazione psicologica tra i personaggi. Don Giovanni subdolamente lavora proprio attorno a questo incanto che le sue parole riescono ad evocare, ma la sua solitudine finale ricorda i tanti altri protagonisti del suoi film. Losey arricchisce il risultato della sua opera grazie alla sfarzosa, ma sempre misurata, messa in scena che realizza.

La carriera di Losey si sarebbe chiusa, come la sua vita, nel 1984 con Steaming – Il bagno turco. Il film è ancora una volta tratto da una commedia scritta per il teatro. Questa si tratta di un’opera di Nell Dunn e servendosi di un cast tutto al femminile con attrici del calibro di Vanessa Redgrave e Sarah Miles tra tutte, è il racconto speranzoso di un gruppo di donne che vogliono impedire la chiusura del bagno turco nel quale si incontrano. Un film da camera in cui restano esaltati i temi della solidarietà e delle intime confidenze che i personaggi si fanno reciprocamente.

Inutile soffermarsi sul valore di una retrospettiva come questa, inutile, soprattutto, sottolineare il valore di un autore come Joseph Losey, al di là degli occasionali passi falsi durante una carriera in cui si contano almeno trentasette film per non parlare delle opere di teatro. Un cinema, quello di Losey, sottilmente perverso, insinuante, che con occhio spietato ha indagato sulle umane debolezze, ricercando, nel tempo, sempre nuove e originali prospettive di indagine.  

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