SPECIALE THE MASTER – La truffa della parola

joaquin phoenix in the master
Un gigantismo sempre più imponente quello del cinema di Paul Thomas Anderson che smembra la teatralità come in Quarto potere e segue la parola in fuga avvertendone il suono funereo come le campane di Boogie Nights. Dal porno al 'più grande spettacolo del mondo', in un film che rappresenta un vertice altissimo della sua filmografia

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joaquin phoenix in the masterIl gigantismo sempre più imponente del cinema di Paul Thomas Anderson amplifica anche il potere della parola. The Master sembra apparentemente chiuso lì, tra i luoghi dove Lancaster Dodd leader della setta chiamata “la Causa” e Freddie fanno le loro sedute, le ipnosi di una mutazione mentale, ma anche le esibizioni in comune alla ricerca di nuovi adepti che diventano veri e propri spettacoli. Proprio gli stessi in cui si esibiva Charles Foster Kane in Quarto potere, quasi una simbiosi parallela tra il corpo di Orson Welles e Philip Seymour Hoffman, che sembra diventare più grande quando più potente è la loro seduzione verbale. In entrambi i casi quella teatralità apparente, smontata nelle molteplici angolazioni e illuminazioni della fotografia di Gregg Toland in Quarto potere, anche in The Master sembra sfasciarsi, liberarsi dalla costruzione di un set titanico che caratterizza quel rapporto tra Lancaster e Freddie, maestro e allievo, con Joaquin Phoenix che nella sua gestualità esibita sembra portarsi addosso quasi il peso del verbo del suo leader.

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Freddie cercava nelle immagini quello che non trovava nella parola. Nei suoi scatti fotografici, come il regista (forse è lui il malato doppio di Anderson) va alla ricerca di quei volti da catturare ma che poi appaiono spesso apparizioni illusorie, quasi sfuggenti. Con Lancaster trova il suo personaggio. Il discorso qui si rovescia. Se Lancaster crea Freddie col potere della parola, quasi come il dottor Frankenstein con la sua creatura, Freddie invece costruisce Lancaster con quello delle immagini. Uno sguardo quindi presente ma che può essere periferico, una specie di reincarnazione di Richard Brooks che in Il figlio di Giuda (rivedere questi due film a poca distanza di tempo produce un’impressionante similitudine) segue il commesso viaggiatore Elmer Gantry che  diventa predicatore. Forse un riferimento diretto con la figura di Philip Seymour Hoffman che ha lo stesso cognome del protagonista del film di Brooks, Burt Lancaster. Ma soprattutto poi si libera di quello che mentalmente si è inventato, in quella straordinaria fuga in moto nello spazio sempre più profondo, territori incontaminati dove Anderson era arrivato soprattutto con Boogie Nights e qui in The Master, un passaggio decisivo e uno degli esiti altissimi della sua filmografia, rifa un altro film sul cinema del cinema. Dal porno al ‘più grande spettacolo del mondo’. E se in Boogie Nights faceva sentire quasi le campane che suonavano a morto, come la fine di un’epoca, qui fa avvertire il suono funereo della parola, quasi in fuga dopo la truffa. Come se si spostasse lei nello spazio prima del personaggio. Senza meta, on the road.

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