SPECIALE "THE MASTER" – L'algoritmo della libertà

Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman in THE MASTER di Paul Thomas Anderson

Gli interni sono celle, gli esterni altrettanto: infinite metrature dove non resta nulla da fare, nè direzione da prendere. Come nei reportage allucinati di William T. Vollmann, Anderson traccia servendosi di due miserabili sciamani l'algoritmo morale della prigionia e della libertà: l'algoritmo morale della dominazione, l'impossibile amore.

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Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman in THE MASTER di Paul Thomas AndersonPer Paul Thomas Anderson la descrizione delle modalità della setta è troppo semplice e la lascia a margine: come nei reportage allucinati di William T. Vollmann, nel suo modo herzoghiano di vivere al di là del possibile,la realtà trapela dietro una narrazione colossale, in "un algoritmo morale per la misura della violenza".
Ciò che gli interessa in The Master è una love story improbabile, come ha detto lui stesso a Venezia, più che tra padre e figlio o Master e Servant, "tra due persone che trovano l'amore della loro vita". Sono due ben miserabili sciamani: Joaquin Phoenix selvaggio rattrappito in adorazione del totem di sabbia, a suo agio soprattutto nell'ombra, come nella prima scena, dove da recluso in uno scenario fantascientifico si abbevera all'unica fonte, negli angoli dove, da mago disperato, miscela i suoi alambicchi alcolici, ci illude ogni tanto di essere un Kaspar Hauser che tocca impropriamente collane e ruba oggetti: ma il mondo in cui penetra è più grottesco del suo smarrimento.

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Se Quell si smarca come un ragazzino, e Dodd, Philip Seymour Hoffman wellesiano che vorrebbe spacciarsi per sardonico Pigmalione, lo redarguisce e lo sculaccia come un cagnolino ineducato (e come cane fedele Quell dimostra la sua dedizione picchiando gli oppositori) a sua volta brama il virus di Quell, il suo intruglio, perde spesso le staffe, geme sotto la sadica tirannia della moglie, in una scena agghiacciante in cui lei gli strappa con una gelida masturbazione la promessa di riservatezza, che per PTA dimostra semplicemente "gli alti e bassi della danza di reciproco controllo e sottomissione in ogni relazione"(che affiora in un altro momento orrorifico, in cui le pupille cristalline di Amy Adams diventano nere come quelle di un alieno o di un demone o dell'oscuro Richelieu che è). I vezzi e i saltelli che lo trasformano in satiro e barzellettiere, l'immagine in cui da raffinato oratore si trasforma sotto lo sguardo di Quell in conduttore di un circo lascivo, mostrano che il Maestro è altrettanto fuori controllo che la mina vagante.

In comune, hanno la perdita di controllo quando vengono attaccati, e lo spazio intorno a loro, per quanto vasto, sembra ritrarsi, riassorbirsi nei rispettivi corpi. La sensualità brutale e infantile di ambedue permea i loro scambi, fino all'accensione di una sigaretta post-coito dopo la prima seduta insieme, che serve solo a dimostrare una segreta affinità. THE MASTER, di Paul Thomas AndersonLa corrispondenza delle loro azioni è troppo sospetta per non essere basata su questa somiglianza fondata su opposti apparenti (in cella, la furia di Quell e la calma immobile di Dodd – calmo e immobile come chi sa di aver rubato) e la geometria degli spazi in cui vengono filmati obbedisce a questa danza.

Il racconto, sottolineato dalla pungente soundtrack di Jonny Greenwood , quasi uno studio scientifico sul sistema nervoso, è punteggiato per ambedue da quegli scoppi d'ira che abbiamo imparato ad amare in Punch Drunk-Love (e sembra strano che Paul Thomas Anderson, da immenso romanziere, voglia su di sé la maschera assoluta di Thomas Pynchon e si dedichi a portare sullo schermo un suo libro). Gli interni sono come prigioni – la stiva della nave, la baracca dei manovali – anche quando apparentemente sono più vasti e sterilizzati – il grande magazzino dove Quell si impiega, il salotto a New York, la villa di Laura Dern, la veranda della piccola Doris, la sede del primo convegno; lo spazio tra la finestra e la porta che Quell ripercorre ossessivamente, è un paesaggio (acquario?) in cui immaginare altri luoghi, perche è troppo angusto. Gli esterni sono pure prigioni, dove per la loro infinita metratura non resta nulla da fare, nè direzione da prendere: la spiaggia, il deserto.
Infine, la sede definitiva del culto è la commistione di ambedue le cose: una vasta cattedrale di morte senza punti cardinali (“scegliere un punto”), una gabbia da criceti dalla quale fuggire è solo un diversivo.
L'algoritmo morale della prigionia e della libertà. L'algoritmo morale della dominazione, l'impossibile amore.

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