BERLINALE 63 – "Camille Claudel 1915", di Bruno Dumont (Concorso)

camille claudel 1915

Con echi anche del suo cinema passato, l'opera del cineasta francese non era mai stata però così rigorosa, estenuante al punto giusto senza arrivare al limite e segnata dallo sguardo di Juliette Binoche, tra riso e pianto, lucidità e follia e che a tratti sembra quasi voler scomparire. Un'essenzialità che rende la sua opera più viva

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camille claudel 1915Non ha addosso la terra e il sudore di La vie de Jesus, ma quello di Juliette Binoche in Camille Claudel 1915 è un altro corpo inquieto, segnato dalle lacrime ma ancora sotto controllo e non dai segni visibili della malattia sul fisico delle altre donne che vivono con lei nel manicomio del Sud della Francia dove è stata rinchiusa. Ci sono solo i segni della sporcizia in apertura, nella scena dove la protagonista viene lavata, poi Dumont gioca abilmente sul suo stato di transizione, tra l'impossibilità di tornare alle creazioni del passato, al desiderio di un ritorno nell'altra vita che è tutto nell'attesa dell'arrivo del fratello. L'anno è il 1915, e la scultrice francese, che è stata allieva e amante di Auguste Rodin, si trovava da poco nel manicomio e lì ci vivrà fino alla sua morte, nel 1943 a 79 anni.

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Non era mai stato così rigoroso il cinema di Bruno Dumont anche se nel mostrare il paesaggio selvaggio, la forza bruta degli elementi sonoro (il rumore del vento) si rintraccia più di un eco dalle parti di Flandres. Con qualche (in)sospettabile traccia bressoniana, si intravede però di più il lavoro sul volto, sulla voce, ma anche sulla scrittura (le lettere) di Thérèse di Alain Cavalier. Ma soprattutto entra in gioco quell'umanità spesso nascosta nel cineasta francese dove la glacialità nel sezionare i sentimenti veniva spesso messa sotto traccia tra le pieghe di quei lunghi movimenti nervosi. Qui lo spazio è più circoscritto tranne nel momento della passeggiata in montagna, dove lì dall'alto si vede la protagonista in un luogo dove una storia, la sua storia già vissuta., potrebbe essere solo per un momento reinventata e quindi riscritta.

Dumont innanzitutto riabilità cinematograficamente Camille Claudel dopo che era stata anestetizzata dal biopic del 1988 diretto da Bruno Nuytten con Isabelle Adjani. Poi, abbastanza inconsueto nella sua opera, non esaspera la chiusura della protagonista nel luogo in cui vive, neanche nell'oppressione degli spazi o anche le persone degli stanno attorno. Piuttosto gioca con impeto sullo sguardo della Binoche, tra il riso e il pianto, tra la lucidità e la follia, tra le manie di essere avvelenata e invece la tranquillità di non voler apparire, anzi quasi di voler scomparire. Il suo volto e la sua parola possono essere scissi. Come nel dialogo col fratello che diventa monologo con la mdp che si stringe in primissimo piano. E in questo senso con questa essenzialità, assieme a un maggiore controllo, rendono paradossalmente il suo cinema più vivo.

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