LA NONA PORTA (The Ninth Gate)


















































Regia: Roman Polanski
Soggetto: dal romanzo "El club Dumas" di Arturo Perez-Reverte
Sceneggiatura: Enrique Urbizu, John Brownjohn, Roman Polanski
Direttore della fotografia: Darius Khondji
Montaggio: Hervé de Luze
Musiche: Wojciech Kilar
Scenografia: Dean Tavoularis
Costumi: Anthony Powell
Interpreti: Johnny Depp (Dean Corso), Frank Langella (Boris Balkan), Lena Olin (Liana Telfer), Emmanuelle Seigner (la ragazza), Barbara Jefford (la baronessa Kessler), Jack Taylor (Victor Fargas), Jose Lopez Rodero (Pablo e Pedro Ceniza), James Russo (Bernie)
Produzione: Roman Polanski per RP Productions/Orly Films/TF1 Films
Distribuzione: Cecchi Gori
Durata: 132'
Origine: Francia/Spagna, 1999


Un gioco che si fa sempre più denso di humor nero e di ironia (nella prevalenza esasperata dell'artificio) è La nona porta, opera imprevedibile, come un labirinto che si forma sotto i nostri occhi, che scivola da ogni gabbia e si sottrae abilmente alle facili definizioni. Il suo percorso si rivela nella profondità dell'immagine e del senso. Come a dire che bisogna spingere lo sguardo in tutte le direzioni per scoprire i mille indizi di cui è disseminata ogni singola inquadratura, è necessario identificare il loro ruolo per poter passare semplicemente oltre e liberarsi dall'urgenza di trovare il posto per ogni cosa. Solo quello dei libri (in essi si è depositata la sapiente pazienza del tempo) sembra essere un mondo ordinato secondo linee immutabili e razionali, mentre tutt'intorno si disegnano traiettorie sconnesse e direzioni ingannevoli Perché La nona porta è un film che inganna continuamente lo sguardo e disorienta il ragionamento. Il lungo viaggio di Johnny Depp da New York a Parigi, attraverso Spagna e Portogallo, non è che un pretesto per generare confusione sia nella finzione della storia che nelle forme della sua messa in scena. Per lo scettico antiquario non si tratta tanto di mettersi alla ricerca di tre libri, ma di attraversare quelle nove porte che lo condurranno a una svolta definitiva. Una sorta di pellegrinaggio inconsapevole che gli insegna, però, a vedere e a cercare solo nelle immagini la risposta alle sue domande. Sarà proprio un'immagine perduta a rendere più profondo il suo sguardo e a rivelargli (perché di continui svelamenti è intessuto il film) il modo giusto di guardare il castello abbandonato che, da teatro di un'illusione, si trasforma in percorso di luce dal quale lasciarsi finalmente inghiottire. Labirintico anche il gioco che si compie attraverso i modi e le forme classiche del cinema. Polanski si serve dei generi per operare su di essi un'ironica opera di successive contaminazioni, come se ai codici e alle convenzioni fosse imposto un rapido capovolgimento di segno per potersi trasformare in sguardo che si sdoppia, capace di contenere sempre l'opposto della sua apparenza.

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