CANNES 66 – “Blood Ties”, di Guillaume Canet (Fuori Concorso)

clive owen e billy crudup in Blood Ties

Se non fosse il remake di Les liens du sang, verrebbe da pensare che James Gray (cosceneggiatore del film assieme al regista) abbia trascinato il film nelle zone di I padroni della notte. Si toccano i nervi scoperti del polar francese che del poliziesco statunitense, gli attori sono diretti alla grande, gli anni '70 sono ricostruiti meticolosamente. L'idea e' che soffra eccessivamente della sua durata. Anche se l'eccesso, invece che un limite, puo' essere invece il suo punto di forza

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clive owen e billy crudup in Blood TiesGuillaume Canet parte lento poi accelera. Entra prima con discrezione, poi s’impossessa dei territori familiari del cinema di James Gray (con cui ha scritto insieme la sceneggiatura) e realizza un’altra sorta di’grande freddo’ dopo il suo precedente lungometraggio, Piccole bugie tra amici, dentro i territori del poliziesco. La passione c’è tutta, la conoscenza di quel genere degli anni ’70 pure. Sospeso tra l’approccio quasi fotografico nel filmare le strade di New York che viene da Jerry Schatzberg a quella robustezza narrativa nella messa a fuoco degli opposti polizia/criminalità di Sidney Lumet, Blood Ties utilizza la fotografia sgranata del fedele collaboratore del regista Christophe Offenstein non solo per la ricostruzione di quell’epoca ma anche per dare l’idea che quel cinema, oggi si può rifare soltanto ripassandoci sopra e non oltrepassandolo. E da questo punto di vista l’attore e regista francese, al suo quarto lungometraggio, supera abilmente una delle diverse insidie nascoste dietro questo progetto.

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Ambientato a New York nel 1974, Blood Ties vede protagonisti due fratelli. Chris (Clive Owen) torna in libertà dopo essere stato in carcere per diversi anni pr omicidio. Suo fratello Chris (Billy Crudup) è invece un promettente poliziotto. Il loro affetto ma anche la loro rivalità risale sin dai tempi dell’infanzia. In più, il padre Léon (James Caan), che è da poco uscito dall’ospedale, ha sempre avuto un debole per Chris. Frank fa di tutto affinché il fratello si ricostruisca una vita. Gli trova un lavoro, l’aiuta a riallacciare i rapporti con l’ex-moglie Monica (Marion Cotillard) e i suoi due figli. Ma qualcosa poi va storto.

Se il film non fosse il remake di  Les liens du sang che Jacques Maillot aveva realizzato nel 2008 (dove Canet interpretava proprio il ruolo del poliziotto) oltre che l’adattamento del libro Deux frères, un flic, un truand di Michel e Bruno Papet, verrebbe quasi da pensare che Gray abbia trascinato il regista francese dalle parti di I padroni della notte. Ed è proprio mettendoli a confronto che si vede la differenza tra una buonissima escursione di genere e un grandissimo film.

marion cotillard in Blood TiesCertamente Canet sa lavorare con estrema meticolosità sul dettaglio (l’uso di alcune canzoni che partono dai dischi che sono presenti nell’inquadratura), penetra in quei nervi scoperti più presenti nel polar francese che nel poliziesco statunitense (lo scatto di rabbia di Chris che da le capocciate al muro), utilizza una colonna sonora gestita anche in modo affaascinante nel suo essere totalmente incontrollato. Clive Owen e i suoi comprimari della malavita hanno quelle facce da belle carogne. Come quelle del cinema di José Giovanni. Ma a tratti, e questo è forse al momento l’unico vero limite del suo cinema, Blood Ties da l’idea di soffrire eccessivamente la sua durata. La parte dell’azione pura (inseguimenrti, sparatorie) risulta ancora non compiutamente esplosiva. Al contrario invece del modo in cui riesce a tracciare tutta la storia dei due protagonisti e anche della sua famiglia anche dopo un terzo di film, anche prima dello straordinario flashback della prima rapina con un richiamo che diventerà decisivo nel corso del film.

Canet sa tirare fuori tutto il meglio dagli attori, dando a Crudup uno dei suoi ruoli più belli (e pensare che inizialmente la parte doveva essere di Mark Wahlberg) e facendolo agire con Owen come se fossero una sorta di fratelli siamesi che si riconoscono anche dal tocco della spalla ferita. E inoltre sa catturare anche l’impercettibile ghigno di disprezzo di Marion Cotillard, la voce che sembra rompersi di Mila Kunis o la paura negli occhi di Zoe Saldana. E il finale è in grande stile. Se non ci avesse messo troppe cose, forse ora si starebbe parlando di un film quasi perfetto. Oppure è proprio quell’incapacità a fermarsi che, invece di essere un limite, potrebbe paradossalmente costituire invece il grande elemento di forza del suo cinema.

 

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