CANNES 66 – “Shield of Straw”, di Takashi Miike (Concorso)

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Bisogna trasportare il criminale nella prigione di Tokyo, distante più di cinque ore dal luogo della cattura. Incaricati della missione una squadra speciale, che dovra' sventare continui attentati, provenienti da “insider”, poliziotti corrotti, gente comune disperata. A questo Takashi Miike manca pero' forse proprio il vuoto (magari una pausa…),
ancora più teneramente letale, per un “folle” del cinema (in attesa) d'azione, di preparazione e quindi di continuo rinvio dell'azione    

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miikeDue anni dopo aver mostrato sempre in Concorso Hara-Kiri: morte di un samurai, Takashi Miike torna a Cannes con l’adattamento del romanzo Be Bop Highscool di Kaxuhiro Kiuchi, celebre autore manga. “Adesso che le grandi figure del cinema sono sparite, mi sento come un agnello solitario nel deserto”. E’ cio’ che pensa il regista, che ha sempre inteso, nella sua sconfinata filmografía, il cinema come un atto provocatorio, una pura forma di dissidenza. Ammazzare un uomo e ottenere  1 miliardo di yen come recompensa. Con questa pubblicita’, apparsa su tutti i media del Paese, il miliardario Ninagawa pone la taglia sulla testa di Kiyomaru, il presunto serial killer di giovani bambine, tra le quali anche la sua piccola figlia. Bisogna trasportare il criminale nella prigione di Tokyo, distante più di cinque ore dal luogo della cattura. Incaricati della missione una squadra speciale, che dovra' sventare continui attentati, provenienti da “insider”, poliziotti corrotti, gente comune disperata. Un percorso infernale, un western urbano, attraversando il Giappone su di un blindato, in macchina, in treno, a piedi. Bisogna ammetterlo, Takashi Miike non e’ più totalmente lo stesso. Da qualche film a questa parte (gia’ dal pur bello 13 Assassini del 2010, e’ cominciato lo scricchiolio creativo), l’autore, pur continuando a girovagare per i generi, come scheggia impazzita e imprevedibile, pare smarrito, confuso, paradossalmente controllato. Urlato, piuttosto che di movimento il suo cinema , faticosamente sacrilego, capace di sbrindellare la cinematografia nipponica. fagocitava rimandi e flussi del passato vicino e lontano. Era una macchina da guerra che affondava da ogni angolazione, lasciando lo spettatore indifeso e agonizzante. Quei repentini e sistematici cambi di registri narrativi sono momentaneamente (si spera) accantonati. Vero e’ che anche il primo Takashi Miike, quello dell'indecisione poetica, errando follemente tra i generi e i supporti, fino a momenti anche d'evasione dalla violenza smodata, non sempre ha convento fino in fondo i suoi estimatori di “superficie”: forse perché troppo inconstante, terribilmente attratto dal “gioco”, dal demenziale, dal grottesco, dall’effetto destrutturante, inspiegabilmente grossolano.

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miikeMa in Shield of Straw, sorgono probabilmente altri disturbi: il desiderio di crescere, di misurarsi con il cinema di circuito, cede il passo ad una scorporazione del marasma visivo, fino a giungere ad un effetto di calma piatta. I sussulti non mancano, come il primo incidente automobilisto in autostrada, ma la sensazione e’ quella di assistere ad un cinema del passato, orfano di un padre pienamente fiero dei propri trascorsi. Il finale “redfordiano”, in cui il poliziotto tiene nella mano una bambina, attraversando un vialetto alberato, dimostrano ancora una volta il desiderio di varcare il “regno di oz”. L’avesse girato questo film uno come Richard Donner, per il quale cinema resta il luogo della guerra, non solo perché è come un campo di battaglia all'idiosincrasia sensoriale, ma perché la battaglia, la guerra, con il suo dispiegamento di strategie, è il set immaginario, naturalmente perfetto per il dispiegamento della strategia cinema su un set. La storia fosse stata girata tutta in tempo reale, con pochi tagli e con il tempo a disposizione come vero spazio del cinema. Lo è sempre stato per Donner, come se, in qualche modo, il luogo stesso, lo spazio visibile del cinema, fosse comunque solo un tempo vuoto, un vuoto. Vuoto come unico luogo del cinema e della vita, come se la vita, o il vedere, dovessero essere per sempre esclusivamente apolidi. A questo Takashi Miike manca forse proprio il vuoto, ancora più teneramente letale per un “folle” del cinema (in attesa) d'azione, di preparazione e quindi di continuo rinvio dell'azione. Gli inseguimenti, le sparatorie, gli incidenti, dovrebbero essere idee semplici perfettamente chiare e distinte: la semplicità che non derivi però solo dalla loro chiarezza e distinzione, ma proprio nel loro derivare direttamente dall'esperienza. La m.d.p. che si muove in spazi chiusi e’ come sempre a suo agio; e’ quando si apre al mondo che si sembra inesorabilmente smarrirsi. In fondo agli occhi dei suoi personaggi non scorgi più quella stralunata strafottenza per ritornare ad essere risolutamente vivi, per poter essere l'incarnazione delle contraddizioni, assumendole in un corpo unico una volta ancora più massiccio e poderoso.

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