CANNES 66 – “Les Salauds (Bastards)”, di Claire Denis (Un certain regard)

les salauds

Ne Les Salauds finisce per non esserci spazio e tempo filmico per nessun’azione, tutto è ridotto a brandelli, abbozzi incompiuti, mandati alla deriva del nulla tra bui e tagli di montaggio, conversazioni (mai tangenziali) iniziate e mai risolte. Se però la Denis lavora su su una sottrazione morale del visibile, c’è qualcosa che agisce da contrappeso, quasi da zavorra alla sua libertà

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le salaudsLa vita è uno schifo, insisteva Malet. E chissà cosa avrà pensato Marco Silvestri in quell’istante del colpo di pistola. Eppure lui aveva deciso di rompere i ponti da tutto e tutti e andarsene per mare. Capitano di marina mercantile, ha fatto del viaggio e della solitudine la sua vita. Ma la famiglia lo richiama alle sue responsabilità. Il cognato, sull’orlo della bancarotta, si è suicidato e la nipote è grave in ospedale, dopo ripetuti abusi sessuali. Marco torna dunque a Parigi per stare accanto alla sorella, ma s’imbatte in una realtà che non aveva immaginato. Al centro della vicenda la losca figura di un vecchio imprenditore, le salaud Edouard Laporte. È proprio accanto al suo appartamento che Marco prende casa. E non saprà resistere alla tentazione della giovane moglie Raphaëlle.

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Les Salauds affonda il coltella nella piaga torbida di un mondo oscuro e putrescente, dove il male non viene da un destino di condanna, ma si incarna, ha un volto, un nome e cognome. I responsabili, “i bastardi”, sono individuati. E il noir si trova proiettato da una dimensione esistenziale a una dimensione politica, che racconta questa Parigi “che lavora e produce” come un porto delle nebbie in cui smarrire la misura delle cose, l’amor proprio e quello altrui. Nella desolazione generale, quello di Marco è davvero un personaggio resistente, che prova ad agganciarsi ancora agli unici volti e corpi che sembrano aver conservato un’apparenza umana, quello di Raphaëlle appunto o quello del dottore interpretato da Alex Descas. Marco è un personaggio alla Kurosawa, come vorrebbe la Denis, un uomo che conserva la sua grandezza anche nella sconfitta. Epperò quell’uomo è troppo stanco, crede troppo poco alla sua capacità di cambiare le cose, per poterne minimamente determinare il corso. E la sua rabbia è solo un rapido accenno, puntualmente mortificato dalle ellissi della Denis. Una stanchezza che leggiamo appieno sulle spalle sempre fiere, eppur più inquiete di Vincent Lindon, nella sua gigantesca presenza d’attore che pare sempre aver voglia di appartenere a un altro mondo.

 

Ne Les Salauds finisce per non esserci spazio e tempo filmico per nessun’azione, tutto è ridotto a brandelli, abbozzi incompiuti, mandati alla deriva del nulla tra bui e tagli di montaggio, conversazioni (mai tangenziali) iniziate e mai risolte. Se però la Denis lavora sul non detto, su una sottrazione morale del visibile, c’è qualcosa che agisce da contrappeso, quasi da zavorra alla sua libertà, alla sua capacità di utilizzare le immagini come filo di sutura tra i vuoti. Stavolta i sentimenti, quella trama misteriosa dei rapporti, appaiono come ancorati a un eccesso di costruzione, alla necessità di dover tener fede a un assunto morale. E proprio quell’umanissima ambiguità che è la cifra dei personaggi della Denis lascia il campo all’evidenza di ruoli già scritti. Restano punte di desiderio ed emozione incontrollata, soprattutto nel fatale coup de foudre tra Vincent Lindon e Chiara Mastroianni. Permane la brutale, dolorosa bellezza di alcune sequenze che si stampano negli occhi, come quella di Justine che cammina nuda e sanguinante con gli occhi persi nel vuoto. Ma quel finale che denuncia l’esigenza di mostrare, contraddicendo il moto di tutto il film, appare più un programma che una necessità.

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