CANNES 66 – "We Are What We Are", di Jim Mickle (Quinzaine des Réalisateurs)

We Are What we Are di Jim Mickle

Un remake del messicano Somos que lo hay, è un horror che non si stacca granché dall'ordinaria amministrazione. Troppo prolisso, e troppo poco capace di valorizzare quello che avrebbe dovuto essere normalizzato: un non banalissimo approccio verso una famiglia mostruosa ma tutto sommato ordinaria.

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We Are What we Are di Jim MickleNon dobbiamo chiedere troppo a We Are What We Are. Remake di Somos lo que hay del messicano Jorge Michel Grau (2010), è un horror che fatica e sbuffa parecchio per uscire dall'ordinaria amministrazione – in ultima analisi, senza riuscirci. In un Delaware in ginocchio per i continui diluvi, e perplesso dalle decine di persone scomparse registrate nella zona negli ultimi anni, una piccola comunità si stringe intorno alla morte accidentale di una donna, che lascia il marito, due figlie e un figlio. Ben presto scopriamo che proprio la sua famiglia (di fanatici religiosi) è dedita al cannibalismo, pratica da loro concepita come una sorta di rito, di tradizione che tiene acceso il ricordo dei loro antenati sbarcati su quelle coste nel diciottesimo secolo, anche loro mangiatori di carne umana (ma per sopravvivere).

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Non dobbiamo chiedere troppo a questa pellicola, perché cade nell'errore classico di chi è troppo giovane e troppo poco dotato per cimentarsi con l'horror: la prolissità, l'accumulo un po' informe di poco necessarie informazioni che non fa che allentare la presa su quanto si racconta. Questo, il problema – non tanto l'esilità della sottotrama gialla, né la troppo disinvolta sottovalutazione della strana tangente narrativa sugli antichi coloni.

Trapela tuttavia qualche pallido motivo di interesse, qualche spunto che in altre condizioni, approfondito a dovere, avrebbe potuto dare luogo ad un'opera migliore. Fra questi c'è senz'altro l'impennata sanguinolenta del finale, effettivamente molto d'effetto. C'è soprattutto, però, uno strano approccio nell'avvicinarsi alla tremenda famiglia; un approccio che parrebbe riuscire a mantenersi in difficile equilibrio su di un tono opaco, cupo ma mai sbracato, che non ricorre mai cioè a un facile umorismo o a una facile demonizzazione, ma che si impegola nella perturbante intimità con un gruppo famigliare mostruoso eppure ordinario.

Ci vorrebbe però un'altra solidità, un'altra consapevolezza, un altro polso – e Jim Mickle non sembra avere niente di tutto questo.

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