CANNES 66 – “Magic Magic”, di Sebastiàn Silva (Quinzaine des Réalizateurs)


Silva non esplicita mai l’elemento soprannaturale che resta una sorta di disturbante vibrazione sotterranea, ma gioca benissimo con la sensazione di tensione costante, veglia ininterrotta a progressiva perdita di lucidità e controllo del proprio corpo, catastrofe imminente da sempre raccontata dalla faccia nascosta e marcescente della natura: un piccolo horror sottocutaneo con cattiverie di chirurgico nichilismo, un pruriginoso esorcismo mapuche su materiali indie USA

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Sebastiàn Silva, l’autore de La Nana, tenta un esperimento di morboso fascino e intrigante azzardo, rovesciando di segno con una specie di arcaico esorcismo mapuche tutti gli elementi e le traiettorie di quella che sembra sulla carta una commedia adolescenziale “classica” USA. E ovvero: volti e icone del cinema indie giovanile (la clamorosa Juno Temple sempre di esplosivo e primordiale magnetismo, Michael Cera, Emily Browning…), un titolo “leggero”, una vicenda di vacanza su di un’isola semideserta con evidenti scopi da parte della compagine maschile di giacere con quella femminile: scherzi, goffi corteggiamenti, fascinazioni per i corpi in mutazione delle pubertà sudaticce…il perno dell’intuizione è Michael Cera: quanto potrebbe risultare minaccioso il ruolo ritornante interpretato da Cera nei suoi film (il disadattato antisociale con l’ossessione per la perdita della verginità) se non fosse sempre stato visto attraverso i filtri di uno sguardo pop e una certa accondiscendente vicinanza sentimentale? Ecco, Cera non modifica di una virgola la caratterizzazione tipica del suo personaggio, ancora una volta un allampanato teenager che cerca di concupire una bella ragazza che indossa felpe col cappuccio (il puntualmente miracoloso Chris Doyle alla fotografia, a proposito), ma viste attraverso la schizofrenia da disturbo del sonno della protagonista Alicia, le stranezze del ragazzo si trasformano nei violenti assalti di un estraneo pericolosamente maniacale.

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Il gioco di Magic Magic sta tutto qui, nel raccontare la minaccia della sessualità vissuta come possedimento esoterico del proprio corpo (la fenomenali e potenti sequenze gemelle dell’ipnosi goliardica tra amici poi replicata dal vero rituale effettuato su Alicia dalla curatrice mapuche nel finale) – va da sé, Silva fa un film dalla carica materica tutta femminile, che si insinua in quella visione viscerale e uterina della terra, della natura, del ciclo della vita (tuffi verticali nel mare di notte, una fitta foresta che inghiotte, morte e sesso che muovono l’istinto degli animali dell’isola) che da sempre accompagna i fenomeni di schizofrenia storicamente spesso scambiati per incursioni demoniache nell’animo delle donne.
Silva non esplicita mai l’elemento soprannaturale che resta una sorta di disturbante vibrazione sotterranea a tutta la pellicola (a scatenarlo è stato l’aborto che intuiamo abbia appena fatto l’amica Sarah?), ma gioca benissimo con la sensazione di tensione costante, veglia ininterrotta a progressiva perdita di lucidità e controllo del proprio corpo, catastrofe imminente da sempre raccontata dalla faccia nascosta e marcescente della natura: ne viene fuori un piccolo horror sottocutaneo, figlio chiaramente di Polanski e magari pure De Palma, costellato da riuscite cattiverie di chirurgico nichilismo, un pruriginoso divertimento di erotismo malato in terra cilena con formula magica.

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