VENEZIA 70 – "Die andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht", di Edgar Reitz (Fuori Concorso)

Ritorno alla fine del tempo. Ta-pa-na-ma. Questa è la parola “indiana” che chiude il diario di Jakob Simon, riservato a noi lettori/spettatori, in quest’ennesimo, magnifico, (ri)tornare a Heimat del cinema di Edgar Reiz. Film-esperienza che dialoga col passato attraverso gli strumenti del futuro, che coglie il cuore del cinema ancora nei subbugli emotivi dei suoi protagonisti, tra Storia e storie…

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Ritorno alla fine del tempo. Ta-pa-na-ma. Questa è la parola “indiana” che chiude il diario di Jakob Simon, riservato a noi lettori/spettatori, in quest’ennesimo, magnifico, (ri)tornare a Heimat del cinema di Edgar Reitz. Un ritorno indietro nel tempo che ci porta nel 1843, sempre nell’immaginaria Schabbach, dove la famiglia lavora e lotta contro la morte, e dove il più giovane figlio Jackob fugge dai dettami paterni per (s)doppiare il proprio sguardo tra i libri che lo formano (la scienza è libertà) e il sogno di un Nuovo Mondo (le carovane che guarda andar via, stagliate in un orizzonte fordiano, dirette sulle navi per il Brasile, verso il sogno di…).

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Queste origini di Heimat inseguono ancora l’etica dicotomia reitziana posta tra la Storia e le storie, tra il pubblico e il privato, tra l’anima e il mondo. E allora il “primo piano” delle consapevolezze sentimentali dei fratelli Jakob e Gustav (che amano una stessa donna) si allargano al “totale” di una Storia che dipinge con disarmante consapevolezza la comparsa dei germi del moderno capitalismo e della coscienza rivoluzionaria di classe; la dignità incrollabile dell’uomo ottocentesco e l’ombra tragica delle malattie novecentesche. La libertà evocata, bramata, sognata a più riprese, diventa una nobile idea troppo spesso sostituita dal denaro.

Reitz sa, ha sempre saputo, che il Cinema lo si fa impastando tecnica e sentimento, e dopo le ritornanze memoriali di Heimat Fragmente, perpetra un’operazione sul dispositivo ancora più radicale: si torna “alle origini di tutto” ma si abbraccia il digitale e la sua immersività-mutabilità in ogni sua forma. L’immagine blocca il tempo con le sue fugaci sovrimpressioni diamantine; l’immagine diventa vita nella mutante tavolozza in bianco e nero sporcata da improvvise (quasi fassbinderiane) pennellate di colori e umori; l’immagine diventa uno specchio dal quale Jakob può guardarsi sognare, perso nelle Frontiere del linguaggio (“la conoscenza è tempo” dice) e in quelle del suo controcampo aldilà del Pacifico (il Brasile, dove i “campi sono cento, mille volte più grandi”…). Un film-esperienza che dialoga col passato attraverso gli strumenti del futuro, che coglie il cuore del cinema ancora nei subbugli emotivi dei suoi protagonisti, che dona allo spettatore uno dei momenti più memorabili degli ultimi anni: l’incontro tra i due junger deutscher Werner Herzog (alias Alexander Von Humboldt) e Edgar Reitz alle porte di Schabbach. “Scusi buon uomo, che città è quella?”…

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