VENEZIA 70 – "Tracks", di John Curran (Concorso)

tracks di john curran
Nonostante sia perfettamente riconducibile a una più ampia tradizione cinematografica australiana sull'attraversamento dell'outback e il rapporto uomo/natura, il film di Curran smaltisce presto il proprio potenziale visivo e fisico rimanendo timidamente attaccato a un eccessivo rispetto filologico della videnda. E così facendo compie il sacrilegio di ridurre la grande interpretazione di Mia Wasikowska

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tracks di john curranNel 1977 la giovane australiana Robyn Davidson decise, sconfiggendo a riluttanza delle persone a lei più vicine, di abbandonare a poco più di venticinque anni la comoda esistenza della vita civile e di inoltrarsi nel deserto australiano con il proprio cane e quattro cammelli addestrati. Diventerà famosa nel suo paese per aver attraversato 2.700 km a piedi attraverso lande desolate e selvagge da Alice Springs all'Oceano Indano. Questa sua esperienza, allora finanziata dal National Geoghaphic, verrà immortalata dalle immagini scattate dall'amico fotografo del New Yorker Rick Smolan e troverà una fortunata vita letteraria internazionale nel libro autobiografico Orme, da cui appunto è tratto questo omonimo film di John Curran.

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Senza dubbio c'era un gran bel potenziale nell'adattamento cinematografico del best seller della Davidson. Un potenziale che di fatto riconduce Tracks a una più ampia tradizione cinematografica australiana sull'attraversamento dell'outback e il rapporto uomo/natura. Non arriviamo a scomodare Peter Weir, il Nicholas Roeg del memorabile Walkabout o anche il più  recente Luhrman di Australia (ma non dimentichiamo neppure The Tracker di Rolf De Heer). Il legame con queste tracce del miglior cinema australiano è tematico ma smaltisce presto la componente allucinatoria primordiale che contraddistingue i cineasti citati. Del resto perplesssità su Curran ne avevamo già dai tempi de Il velo dipinto. Qui in realtà di autentici danni il regista non ne fa, in quanto estremamente attento a un controllo della materia probabilmente dettato dal forte rispetto filologico nei confronti del materiale letterario di partenza e di quello fotografico tratto appunto dal reportage di Smolan.

Anzichè spingersi verso una percezione del paesaggio soggettiva, capace di riprodurre un originale immaginario visivo e fisico del viaggio della protagonista, Curran gioca quindi in difesa, confeziona il proprio compitino ritraendo (in parte) la bellezza e la fatica dell'erranza ma non la sua anima nè le profonde ambiguità antropologiche postcoloniali riconducibili al più ampio complesso di colpa generazionale incarnato dalla Davidson, non a caso coetanea di molti cineasti sopra citati. Così facendo paga dazio alla propria timidezza rimanendo prigioniero nel limbo dell'inerzia e compiendo il sacrilegio di ridurre la grande interpretazione di Mia Wasikowska.

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