VENEZIA 70 – “Piccola patria”, di Alessandro Rossetto (Orizzonti)


Nella sezione Orizzonti troviamo l’esordio nel lungometraggio di Alessandro Rossetto. Piccola patria si distingue per il tratto veloce nella descrizione delle situazioni, l’intrigo ordito dalle sue protagoniste si consuma dentro i confini confusi di un paesaggio indistinguibile e in una quotidianità progressivamente decadente e svuotata di ogni valore culturale

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Si respira un’aria di decadenza, sin dalle prime immagini, si entra, quasi subito nel clima della cospirazione e comprendiamo che si tratta di un altro ritratto di un’Italia senza identità come senza identità è il paesaggio dentro il quale si muovono i suoi protagonisti. Alessandro Rossetto inscrive il suo film tra due sequenze apparentemente uguali, ma profondamente diverse nel loro effetto di percezione da parte dello spettatore. Due riprese aeree su un paesaggio che non ha una precisa identità, scomposto tra capannoni industriali e confini cittadini, aree dismesse e autostrade che lo percorrono incessantemente. Ma tanto è ariosa quella di apertura che sembra soffiare la vita nella storia, tanto l’ultima sembra volere schiacciare lo scenario per costringerlo dentro l’immagine.

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Piccola patria è un film che coerentemente al suo procedere, vuole farsi cronaca, vuole ibridarsi trasformandosi in esperienza per quel terzo genere che non è non-fiction, ma non è neppure film di scrittura a soggetto. Rossetto proviene dal documentario e il suo campo di indagine d’origine lo aiuta in questa sua prima opera che si discosta (ma non troppo) dalla sua ricerca documentaristica. Due amiche, Luisa e Renata tramano un ricatto a sfondo sessuale nei confronti di un conoscente. Un inconsapevole ragazzo albanese, fidanzato di Luisa, rischia di farne le spese.

La storia è minimale, il dramma è collettivo e trasforma il microcosmo familiare, che fa da sfondo attivo alla vicenda, in metafora, in parte per il tutto. Rossetto si avvale di una schiera di ineccepibili interpreti che sanno restituire la doppiezza che li caratterizza e se qualche incertezza a volte sembra affiorare non è da attribuirsi alle loro prove d’attore, ma forse una scrittura che vuole dire troppo rispetto a quanto già traspare. Il pregio di Piccola patria è proprio nel tratto veloce della descrizione delle situazioni, quando la macchina da presa indugia anche il ritmo ne resta penalizzato.

Ma questo accade davvero di rado e, invece, il racconto del film procede, dentro contesti precisi, ragionati e mai volti a diventare tesi sociologiche. Non vi è dubbio però che la narrazione scruti una realtà precisa, parta da ipotesi ben definite. Il dramma si consuma in un territorio sempre più sprofondato dentro una catena infinita di pregiudizi e male interpretate tradizioni, dentro dinamiche politiche che declamano spinte autonomiste (e razziste) di un nord-est in piena crisi economica. Una crisi che, inevitabilmente diventa anche confusione di valori e principi e in cui anche il paesaggio sembra partecipare a questo generale spaesamento, ormai incapace, anch’esso di restituire un’immagine di benessere, ma solo una confusa e incerta realtà che si fa anima e quotidianità.

Piccola patria è anche un titolo quanto mai ironico, polivalente e aderente ad una condizione di povertà culturale. Il torbido intrigo e l’aria di imminente tragedia che incombe sono tradotti con eleganza formale e l’originale colonna sonora costituisce una spiazzante sorpresa per la forza evocativa che la caratterizza con i suoi cori alpini solo apparentemente lontani dal racconto. Le loro melodie popolari, nell’evocare un passato della cultura contadina e montanara di cui sono espressione, segnano la distanza dall’inquietante presente che resta ingabbiato dentro quei “cattivi” personaggi che a loro volta hanno costruito un paesaggio che gli rassomiglia: amorfo e inespressivo.

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