VENEZIA 70 – "Tom à la ferme", di Xavier Dolan (Concorso)

Dopo i vagabondaggi sentimentali di Lawrence Anyways il cinema del giovanissimo Xavier Dolan si blocca in una fattoria. Tom à la ferme è un thriller/mèlo ad alto tasso cinefilo, stranamente raggelato per gli standard del ventiquattrenne regista, che pur facendo intravedere nuovamente il suo enorme talento fa anche troppa fatica a “evadere” dal geometrico palcoscenico che (ci) impone

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tom à la fermeDopo i vagabondaggi sentimentali di Lawrence Anyways, il cinema del giovanissimo canadese Xavier Dolan si blocca in una fattoria. Tom à à la ferme. Luogo isolato dove il protagonista (Tom, appunto, interpretato dallo stesso regista) si reca per assistere al funerale del suo ex fidanzato, conoscendo le inquietanti figure della madre e del fratello (Francis, un burbero allevatore di bestiame) con cui inscenare un classico gioco di specchi dall’alto tasso cinefilo. La madre castratrice non deve conoscere i segreti del figlio defunto; non deve scoprire il rapporto che lo legava all’ospite inatteso; e Francis diventa lo sceneggiatore occulto che impone trame parallele e banali soffocando con violenza ogni pulsione e verità. Nascerà un rapporto ambiguo con Tom, di repulsione/attrazione, un rapporto spiacevolmente “vero”.

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E allora: nella progressione eccessivamente costruita di questo melodramma/thriller tratto dalla piece teatrale di Michael Marc Bouchard,  film (stranamente) raggelato per gli standard del regista – con echi di colta cinefila che vanno da Almodovar a Polanski, da Fassbinder a Kubrick (in più di un’occasione si avvertono consapevoli riferimenti a Shining), sino all'imprescindibile Hitchcock – si salva nuovamente la sincerità di fondo con cui Dolan mette a nudo ogni suo fantasma interiore trasformandolo in immagine. Certo, non se ne esce, siamo di nuovo dalle parti di un'ansia da prestazione registica che intasa lo sguardo dello spettatore con insistiti primi piani fini a se stessi, con una colonna sonora spudoratamente ispirata a Bernard Herrmann che alla lunga risulta decisamente invadente e giocando persino sui formati dell'inquadratura. Il suo strano divertissement di genere, allora, riesce per almeno un’ora a reggere una tensione invidiabile prima di perdersi sotto il peso delle troppe ambizioni manifeste.

Dolan (al suo quarto film a soli 24 anni!) dimostra per l’ennesima volta un’incredibile maturità nella gestione del set e degli attori (qui sostanzialmente solo tre), con una conoscenza sin troppo palese della storia del cinema e del gioco sulle dinamiche di attesa/sorpresa o di identificazione spettatoriale. Insomma, è innegabilmente bravo. Ma forse, da sempre, ha il difetto di rendersene un po' troppo conto. E mentre nel precedente Laurence Anyways ogni palese (e a volte superflua) ridondanza registica veniva straordinariamente bilanciata dai piccoli/grandi momenti di calore umano che erompevano dallo schermo, in questo caso i suoi protagonisti rimagono abbastanza presto imbrigliati in schemi fissi, in “maschere” prestabilite, per non evadere (quasi) mai. Lo sperduto paesino di campagna sembra quasi un palcoscenico messo in piedi per lo “spettacolo” dello svelamento di ovvie verità: l’identità sessuale da rivendicare e illuminare per superare la violenta brutalità del conformismo. Tutto un po' troppo manifesto, atteso, capito sin da principio. Come se in quella morte dell’amore posta prima della prima inquadratura del film e in quel funerale che tristemente lo apre, si fosse già consumata tutta la passione che Lurence manifestava sino all'ultimo fotogramma del precedente. Rimangono almeno tre sequenze da grande “mettitore in scena”, rimane la speranza che il ventiquattrenne Dolan in futuro possa sfruttare meglio il suo potenziale.

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