VENEZIA 70 – “La jalousie” di Philippe Garrel (Concorso)

A Venezia arriva il cinema “senza tempo”, ormai “quasi alieno” di Philippe Garrel, in una storia che è un cortocircuito storico familiare (con i figli Louis ed Hester che interpretano il padre e la zia del regista), dove al centro sono sempre le "scie d'amore", con le loro derive di felicità e dolore. E dove al centro resta sempre il cinema “più intimo del mondo”

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La jalousie di Philippe garrelIn una 70a Mostra del Cinema che stenta a trovare il suo picco vincente, arriva il cinema “senza tempo”, ormai “quasi alieno” di Garrell, qui con una storia scritta a quattro mani, avendo aggiunto al solito Marc Cholodenko anche Caroline Deruas e Arlette Langmann. E questa scrittura masculin feminin si percepisce forte, nello slittare continuo dei punti di vista di una storia che, risulta curioso per un cinema così terribilmente personale e intimo come quello di Garrel, è tratta dalla “biografia vera” del regista.

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Louis, suo figlio, interpreta suo nonno a trent'anni – la stessa età che ha oggi. "Il film racconta la storia d'amore di mio padre Maurice con una donna, mentre io venivo cresciuto da mia madre (in la Jalousie, io sono la bambina)" spiega Garrel.

 

Un miscuglio biografico generazionale, padri nonni figli sorelle, che alla fine mette in scena in un biancoenero essenziale e straordinariamente panoramico (“avevo bisogno di catturare le cose estreme ai bordi del quadro” spiega Garrel), che riposiziona il cinema del regista francese sui territori delle sue opere migliori, dove i sentimenti sono un micro/macro mondo assoluto, dove tutto avviene e dove tutto il resto, a parte l’arte (il teatro, la musica, il cinema, la letteratura) è puro contorno.

 

Apre e chiude con “una separazione”, le lacrime che segnano il dolore lancinante della perdita dell’oggetto d’amore. Louis (Louis Garrel) lascia la moglie e la piccola figlia per vivere con il suo nuovo amore Claudia, attrice come lui ma senza lavoro, per vivere un po’ alla bohemien in una piccola mansarda. Con regolare frequenza vede la figlia, con la quale vive un rapporto di tenera complicità. Ma gli amori, anche quelli più forti, prima o poi vivono le loro crisi profonde. Claudia vuole qualcos’altro, trova un lavoro, un uomo che le da persino un appartamento, per viverci con Louis, pensa lei. E invece questo diventa il punto di non ritorno della storia, che scivola verso una inevitabile separazione.

 

“Credi ancora in Dio? No, ma ho mantenuto gli angeli”, racconta Garrel che gli diceva un suo vecchio professore. E qui gli angeli sono evidentemente i figli che Garrel mette in scena entrambi, fratelli, in un cortocircuito familiare pazzesco (il figlio e la figlia che interpretano il nonno e la nonna) dove al centro resta sempre il cinema “più intimo del mondo” di Philippe Garrel (“sto disegnando i miei figli”, spiega). Ed ecco vecchi che diventano “padri sostitutivi” (il vecchio professore e il vecchio scrittore da andare a trovare), bambini che ci permettono di giocare e sorridere con il mondo, mentre più che la gelosia del titolo (che francamente non si sembra così centrato), sono le scie d’amore quelle che in questo “cinema pittorico”, sono sempre al centro del quadro. Come se non si potesse vivere senza l’amore (parola sempre al centro dei dialoghi del film), ma contemporaneamente fosse impossibile “vivere solo d’amore”, come fosse una droga, una droga potente, la più potente droga del mondo. E da una lacrima all’altra, il cinema di Garrel prosegue nel suo folle tentativo di “afferrare i sentimenti”,  che invece sfuggono e, dopo averli vissuti, possiamo solo osservarli, in lontananza…

 

 

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