VENEZIA 70 – "Sacro GRA", di Gianfranco Rosi (Concorso)

Sacro GRA è un film di magnifici scarti. Gianfranco Rosi non riprende mai il grande raccordo anulare: il suo (cine)occhio rimane perennemente obliquo, arriva sempre o un attimo prima o un attimo dopo il flusso di eventi o di persone che ci presenta. Insomma: il GRA è cinema. E lo è perché presuppone infiniti attraversamenti, tanti futuri possibili, come ci ricorda il caro “passeggero” Renato Nicolini…

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Sacro GRA“…se il cinema non esistesse proprio sotto forma di un sistema di scarti irriducibili tra cose che hanno lo stesso nome senza essere membra di uno stesso corpo…” Jacques Rancière

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Il GRA non supporta nessuna struttura. Esiste solo in funzione delle sue entrate e delle sue uscite” Renato Nicolini

Il cinema, oggi, più che mai, è ovunque. Nell’abitacolo di un automobile o all’inseguimento di struggenti cani randagi; perso nei canyons della memoria o dell’immagine; sfiorato da improvvisi dis-accordi che ci facciano ancora incontrare, conoscere, perdere, forse amare. E allora questo cinema ci appare oggi, più che mai, un (grande) raccordo (anulare) di infinite storie che sfuggano alla Storia, perse nella periferia dello sguardo, oltre i limiti del pianeta conosciuto, come “un anello di Saturno che circonda la capitale”.

Veniamo al punto: questo è un film che non intende, in nessun modo, tracciare la mappatura fisica di uno spazio. Gianfranco Rosi non riprende mai il GRA: il suo (cine)occhio rimane perennemente obliquo, arriva sempre o un attimo prima o un attimo dopo il flusso di eventi o di persone che “presenta”, abbracciando una mamma Roma di cui si sentono echi lontani – “il cupolone si vede anche da qua, incredibile!” -, mai inquadrata perché lasciata immaginare negli occhi di chi guarda oltre la nostra inquadratura.

Questo è un film fatto di scarti. Questo è il progetto folle (nato più di dieci anni fa, durato due anni di riprese e otto mesi di montaggio) di chi ha tentato di filmare l’anima di una città/mondo partendo dai suoi limiti estremi, dall’eterno confine tra il dentro e il fuori lo spazio. Ecco perchè l’anello di strada che circonda la capitale non può essere (de)finito, non può durare solo i suoi canonici 68 km, ma deve continuare a preservare la memoria di 2000 anni di storie e leggende che hanno forgiato il nostro immaginario. Uno spazio sacro e infinito, non localizzabile nemmeno dal cinema che si fa beffe di ogni topografia (qui letteralmente ri-costruita) o di ogni cronologia (dal sole, alla neve, di nuovo al sole tutto in pochi stacchi di montaggio. Ma insomma: che “tempo” stiamo vivendo?).

Sacro GRASacro GRA è un film popolato da persone. Persone a cui non si vuol nemmeno dare un nome, perché non è importante. Come il pescatore di anguille che non può sopportare il pressapochismo con cui i giornalisti, specchio della società integrata, dipingono il suo mestiere: “ma si informassero ‘sti ignoranti!”. O il solitario e appassionato botanico che studia le palme e le larve che le consumano da dentro, sentendo (anche lui…) ogni rumore dai limiti estremi dell’organismo, dalla corteccia e dai suoi raccordi ruvidi, per capire se ci sono intrusi e come combatterli. O le anziane prostitute che preferiscono la treccia alla mozzarella, sempre “discrete” nel loro mestiere: "non siamo mai nude” e ci tengono a rivendicarlo. Infine le nuove costruzioni provvisoriamente occupate: nuovi alveari che (ancora una volta) la macchina da presa di Rosi non oltrepassa mai, rimanendo (bazinianamente) sulla finestra a cogliere scarti di caldissima umanità nel flusso di una gioventù in marcia simile a quella di Pedro Costa.

Insomma: il GRA è cinema. E lo è perché presuppone infiniti attraversamenti e tanti futuri possibili (ci ricorda il caro “passeggero” Renato Nicolini…). Come gli UFO guardati in televisione da noi alieni senza più un presente. Come il sublime fotoromanzo improvvisato nel casale di un bizzarro principe di periferia che, nello stacco successivo, serve solo a insegnare la lingua italiana alla donna ucraina di cui innamorasi. Chiamandola, col sorriso ritrovato, amore. Gianfranco Rosi crea connessioni, link improvvisi e “attualissimi”, ridando nel contempo fiducia a un montaggio dialettico che deriva dritto dalle origini (vertoviane) di questo linguaggio. Facendo evadere il cinema dalle inutili ghettizzazioni lessicali fiction/documentario e ponendosi esattamente a metà strada tra l’astrazione quasi metafisica di Below Sea Level (anche qui una sfilata di solitudini oltreurbane) e la chirurgica/agghiacciante neutralità di El sicario (la sequenza della fossa comune è di una potenza inaudita). Sacro GRA è un film (?) magnificamente e volutamente incompiuto, che potrebbe durare cinque minuti o un’intera vita. Un corpo vivo che rifiuta la circolarità fisica del suo (s)oggetto, cercando il sacro in una laica e neopasoliniana indagine che lasci solo a noi spettatori l’onere di proseguirne il tragitto sentimentale. Per cercare, ancora oggi, un nostro privato e cinematografico grande raccordo.

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