VENEZIA 70 – "Still Life", di Uberto Pasolini (Orizzonti)

still life
Uberto Pasolini si riconferma un autore sensibile, e il suo personaggio John May suscita dal primo momento empatia e commozione grazie a pochi gesti rivelatori. Veste sempre di grigio, mangia ogni giorno tonno in scatola. Ma, estatico, si stende sull’erba di un cimitero, e rivela il suo amore per la vita nei dettagli. Fino allo splendido e inatteso finale

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still lifeSouth London. John May è un impiegato del Comune incaricato di rintracciare i parenti più stretti di persone morte in solitudine. Per John non è solo un lavoro, ma ? paradossalmente ? è una ragione di vita. Quindi John si occupa anche di raggranellare quelle nozioni che gli permettano di scrivere un accalorato elogio funebre e di convincere amici e parenti del defunto a presenziare al funerale. Quando viene licenziato a causa di un ridimensionamento del personale, John dedica tutte le sue energie all’ultimo caso, quello del suo dirimpettaio alcolista morto in solitudine. E intraprende un viaggio che insinua poco a poco nella sua vita colori nuovi, abitudini nuove, atteggiamenti nuovi.

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Nel suo secondo lungometraggio da regista dopo il divertente “Machan”, apprezzato alla 65ª Mostra del cinema di Venezia, Uberto Pasolini si riconferma un autore sensibile, capace di coniugare ironia e toni malinconici senza mai scadere nel macchiettismo o nell’autocompiacimento. John May, interpretato dall’eclettico Eddie Marsan, è uno di quei personaggi forti, che suscitano dal primo momento empatia e commozione grazie a pochi gesti rivelatori. Raccogliere le briciole dal tavolo di un bar al momento di andar via, sorridere con imbarazzo a un cane quasi fosse una persona, inseguire un furgoncino di gelati per avvertire dello sportello aperto e poi raccogliere un gelato dalla strada e trangugiarlo in solitudine. John veste sempre di grigio, mangia ogni giorno tonno in scatola, è solitario e non ama conversare con chi rivela scarso riguardo verso i defunti. Ma, estatico, si stende sull’erba di un cimitero, trova parole di conforto per chi si mostra fragile, conserva in un album le foto più rappresentative di chi è deceduto. Non ha amici reali, ma ne ha moltissimi che non l’hanno mai conosciuto, e questo lo rende al tempo stesso schivo e dolce, squallido ed eccentrico, degno di curiosità per chi riesce ad andare oltre il suo aspetto dimesso. Il dirimpettaio morto non a caso è il suo doppio speculare: alcolista, prepotente ma difficilmente dimenticabile, descritto da amici e parenti come qualcuno capace di fortissimi slanci e meschinità. Mentre John, nella sua routine da cui fatica a evadere, rivela il suo amore per la vita nei dettagli, nella dedizione verso il proprio lavoro, nella convinzione che ogni defunto meriti parole di nostalgia. Queste sfumature gli permettono di entrare in profonda sintonia con la figlia del dirimpettaio, un’altra anima delicata che sembra quasi inadatta al mondo dei vivi. E gli permettono altresì di trovare un riscatto nello splendido finale, che commuove aumentando di pochi decibel i toni sussurrati del film. Per accogliere quelli lirici, conservare la nitidezza delle altre inquadrature e ? in un bisbigliato coup de théâtre ? emozionare davvero.

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