FESTIVAL DI ROMA 2013 – Take Five, di Guido Lombardi (Concorso)

take five

Sulla stanchezza rassegnata dei volti e dei corpi, sulle cicatrici dei cuori malati, si legge, evidente, un senso di disperazione profonda, hustoniana, quasi come se i quartieri di Napoli fossero un’altra Giungla d’asfalto. Disperazione mascherata, in qualche modo tradita, dal tono ironico che fa pensare, a tratti, a una commedia stile “soliti ignoti”

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take fiveUn operaio addetto alle fogne di Napoli si ritrova a intervenire nel caveau di una banca e matura l’idea di una rapina colossale, che potrebbe permettergli di ripagare gli ingenti debiti di gioco. Contatta così Gaetano il ricettatore, grande conoscitore della malavita cittadina. È Gaetano a mettere insieme la squadra. Innanzitutto suo nipote Ruocco, pugile squalificato a vita e costretto agli incontri clandestini. Poi Sasà, fotografo malato di cuore, dal passato avventuroso. E infine Peppe O’ Sciomèn, leggendario rapinatore caduto in depressione dopo dieci anni scontati a Poggioreale.

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Ce ne sarebbe di materiale per un grande film crepuscolare. Personaggi che si dibattono tra la necessità di riscatto e lo spettro della caduta definitiva, la chiara percezione di un’impasse esistenziale che fa il paio con i giri a vuoto prolungati e i rallentamenti di ritmo, il senso di un destino ineludibile. C’è un che di già segnato nell’impresa dei cinque rapinatori reclutati un po’ per caso, un po’ per nostalgia del passato. Qualcosa che va dall’inadeguatezza alla sfortuna. “E che bella paranza…” dice, con la sua ironia dura e beffarda, ‘O Sciomèn a Gaetano. E proprio sulla stanchezza rassegnata dei volti e dei corpi, sulle cicatrici dei cuori malati, si legge, evidente, un senso di disperazione profonda, hustoniana, quasi come se i quartieri di Napoli fossero un’altra Giungla d’asfalto. Disperazione appena mascherata dal tono ironico che, specialmente all’inizio, fa pensare a una commedia stile “soliti ignoti”.

È proprio in questa dissonanza tra l’apparenza veloce e ammiccante e la densità tragica del racconto la cifra più evidente di Take Five. Come se Guido Lombardi non avesse l’animo di seguire i suoi personaggi fino al fondo del loro destino senz’appello, senza concedergli il beneficio di una risata, qualche momento d’inconcepibile leggerezza. Il che trova un naturale appiglio nella capacità istrionica degli interpreti, tutti contemporaneamente, magnificamente, dentro e fuori parte, dentro e fuori il “carcere” del ruolo, dei volti, della vita, a cominciare da Salvatore Striano e Peppe Lanzetta, monumentale e incontenibile. È solo che questo scarto, questo controcanto, in qualche modo, ridimensiona la “nitida cupezza” noir del reale, a cui ambisce lo stesso Lombardi, quella incontrata già sulle strade desolate di Là-bas.

 

Ecco, se davvero c’è qualcosa che stona in Take Five è la pudica incertezza nel condurre il genere fino alla radice delle sue implicazioni esistenziali. La disfatta si legge più nelle parole, nelle intenzioni della performance, che nelle immagini. “Pillole pe’ ogni cosa. Per la depressione e pa’ cacarella”. Lombardi sembra incapace di lasciar andare le scene, le trattiene come nel ralenti della sparatoria tra i camorristi, o le rinchiude nell’esigenza di una quadratura del cerchio impossibile, come nell’inquadratura finale. Eppure, nello stallo di qualche istante prima, avevamo intravisto quella strada meravigliosa che va da Melville a Johnnie To. Tracce sparse di un grande film… ancora da finire.

 

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