FESTIVAL DI ROMA 2013 – The Mole Song – Undercover Agent Reiji, di Takashi Miike (Concorso)

The Mole Song - Undercover Agent Reiji

Qui Miike gira a vuoto. Con pazzesca convinzione esibita e programmata. Affastella ironia macabra e gag infantili, risate sguaiate e botte da videogames, manga e stop motion naif, grezza CGI e corpi di gomma… un’orgia colorata di immagini che si accavallano e si spintonano, in questa sorta di dissacrante e (forse troppo) consapevole autoimplosione del suo cinema

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The Mole Song - Undercover Agent ReijiMa siamo seri? È roba da scemi… continua a dire il protagonista Reiji sballottolato da una situazione limite a un’altra. È il Miike più provocatorio e di “superficie” questo di The Mole Song (tratto da un manga originale di Noburu Takahashi), quello che fa saltare sulla sedia i suoi detrattori e armare di sofisticati discorsi sulla sublime inutilità i suoi agguerritissimi estimatori. La verità è che il grande vecchio Takashi si diverte un mondo a non prendersi mai sul serio (anche quando lo fa), e i suoi ultimi film sono palesemente parte di un unico grande discorso sulla mancanza di prospettiva del cinema/mondo contemporaneo, sulle immagini che si riproducono per partenogenesi e che non finiscono mai, strutturando un universo parallelo dal quale non si sfugge proprio più. Come non sfugge Reiji, poliziotto inetto (e comicamente “vergine”) scelto apposta per fare l’infiltrato in una delle più potenti famiglie yakuza, arrestare il boss dei boss e sgominare il traffico di droga che attanaglia il Giappone. Spalleggiato dall’esilarante maschera del gangster Papillon (Shinichi Tsutsumi, sempre più attore centrale del nuovo cinema giapponese) e costantemente alla ricerca della sua prima esperienza sessuale con una bella e angelica collega.

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E per almeno un’ora si assiste alla irrazionale messa in scena dell’assurdo: continui provini per testare l’idiozia di Reiji e essere sicuri che sia lui l’infiltrato giusto (l’attore adatto, il nostro protagonista…). Per poi essere travolti da un’orgia colorata di immagini che si accavallano e si spintonano, in questa sorta di dissacrante e consapevole auto implosione del (suo) cinema. Miike (dall’alto di una filmografia sterminata) dimostra una spaventosa consapevolezza registica: ogni inquadratura ha le inequivocabili marche enunciative del folle metteur en scène giapponese, non potrebbe essere di nessun altro. Ma, forse, proprio questa raggiunta e cristallina maturità discorsiva fa rimpiangere quel fertile disequilibrio che si percepiva appena qualche anno fa. Negli abissali finali dei suoi Dead or Alive o negli stordenti cambi di registro  di Izo e Gozu; nelle neo-classiche traiettorie di Agitator e persino nello scatenato giappowestern simil brechtiano del suo Django.

Qui Miike gira a vuoto. E con pazzesca convinzione esibita e programmata. Affastella ironia macabra e gag infantili, risate sguaiate e botte da videogames, manga e stop motion naif, grezza CGI e corpi di gomma… e il suo film viaggia come un treno su questi binari. Come se ogni dinamica postmoderna fosse stata rimasticata e ormai digerita, e come se ogni riflessione sul cinema (ancora potente nell'ultimo Sion Sono) fosse ormai orgogliosamente bypassata a contatto di un’impressionante (e significante) superficialità. 

Ma poi si esce dalla sala e il film continua a rimbombare. In discorsi incrociati, vivi, straordinariamente opposti: è diventato conservatore con questo spottone antidroga!; è sempre più felicemente anarchico!; ma qual è il senso di questa operazione oggi? Ecco: l’innegabile grandezza di Miike è sempre stata quella di terremotare le attese del suo affezionato spettatore (appena un anno fa portava al Festival di Roma l’estrema esperienza filmica de Il canone del male), preso come cronica cavia di un personalissimo discorso sull’umanità e su ogni assurdità relazionale di fondo. E allora nonostante qualche scricchiolio creativo, i dubbi sulla eccessiva programmaticità di questa operazione o la riconfigurazione un po’ stanca di sue vecchie formule, alla fine è sempre lo sguardo di Miike che frantuma il nostro. Che ci pone di nuovo nel dubbio. Che ci interroga su ogni vuoto (e) senso. Ma siamo seri? È roba da scemi

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    Un commento

    • Caro Pietro,
      purtroppo io ho fatto la drastica ed infelice scelta di non vederlo
      poiché non ce la facevo ad aspettare 6 ore a vuoto all'Auditorium,
      poiché stavo alle 7 di mattina per vedere Hunger Games, ma mi sono addormentato durante il film e dopo anche con Blue Sky Notes.

      Quindi ti credo sulla parola.

      Un saluto affettuoso

      Gibbo.