FESTIVAL DI ROMA 2013 – The White Storm, di Benny Chan (Film di chiusura)


Quello che è in ballo nel finale non è più legato al racconto con stile contemporaneo di una storia dell'antidroga come quelle che stanno facendo la fortuna del box office hongkonghese recente, ma affonda le proprie radici nelle traiettorie impazzite e incontrollabili, nell'epica disillusa gonfia sino ad esplodere di fatalismo romantico senza vergogna che innervava i capisaldi dell'heroic bloodshed

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Il testacoda più folle Benny Chan non lo compie con la macchina da presa, o con un'autovettura in uno dei mirabolanti inseguimenti di cui è zeppo il suo film, o per stare dietro ad uno dei suoi attori nel corso di una delle pirotecniche sparatorie che punteggiano la pellicola. No, la virata più spericolata la fa il film stesso, l'opera in sé, nel momento in cui la vicenda narrata effettua un salto temporale di 5 anni, tra Hong Kong e Hong Kong, con l'esplosivo frammento tailandese a fare da spartiacque. Pur avanzando cronologicamente nella storia, Benny Chan intende però la spartizione come un vertiginoso salto all'indietro, formale e concettuale: il risultato è un movimento inconsulto, uno smarrimento dello sguardo e un riavvolgersi delle traiettorie che fanno il fascino più inedito di tutto The White Storm.

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Con ordine, dunque al contrario. Il film si apre con una serie di sequenze concitate in cui facciamo conoscenza dei tre protagonisti, le fenomenali star del cinema hongkonghese Louis Koo, Nick Cheung, e il puntualmente immenso Sean Lau (il volto leggendario di Mad Detective, Life without principle, A hero never dies…), nel ruolo di tre amici d'infanzia ritrovatasi fianco a fianco da poliziotti nella lotta al florido e violento mercato della droga. Uno di loro è infiltrato tra gli spacciatori da anni, e grazie al suo operato i tre riescono ad arrivare a Buddha-Otto-Facce, il crudelissimo e misterioso capo del cartello tailandese. Si tratta di una sezione iniziale in cui Chan adotta uno stile frammentario, veloce e contemporaneo, molto attento ad una fotografia e ad un taglio registico vicini agli action di ultima generazione, stilizzati e scomposti.
Dopo il “buco nero” della parentesi quasi da war movie nella giungla tailandese, il film all'improvviso si ferma, e Chan, come i suoi personaggi, si guarda indietro: ed eccoci in puro territorio da heroic bloodshed hongkonghese dell'epoca d'oro, colori saturi, densità mélo nei movimenti e nelle sequenze, lealtà, fratellanza come vincolo d'onore nei confronti di un passato oramai dissoltosi nell'espiazione violenta, sacrifici estremi e il sangue che inevitabilmente sgorga copioso nella, come si conviene parossistica, resa dei conti conclusiva.

Mandando avanti di cinque anni le vite dei suoi protagonisti, Benny Chan “asciuga” il suo film da qualunque urgenza espressiva e tangenziale (l'allarme-droga, il traffico internazionale), e si allinea riscoprendola alla gloriosa tradizione di questo cinema. Quello che è in ballo adesso non è più legato al racconto con stile contemporaneo di una storia dell'antidroga come quelle che stanno facendo la fortuna del box office hongkonghese recente, ma affonda le proprie radici nelle traiettorie impazzite e incontrollabili, nell'epica disillusa gonfia sino ad esplodere di fatalismo romantico senza vergogna che innervava i capisaldi del genere intorno a 25 anni fa (i capolavori di John Woo come A better tomorrow 2 e Bullet in the head soprattutto, citati quasi letteralmente).
In questo modo Chan compie furbescamente la notevole impresa di avvicinare al suo prodotto internazionale due tipi di pubblico, i giovani a cui piacciono i blockbuster con venature da metropoli postmoderna, e gli appassionati degli action della vecchia scuola di Hong Kong. La presenza di tre icone amatissime dai fan del genere fa il resto, e The White Storm è destinato a non fallire.

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